Il libro di Anna Foa 'Il suicidio di Israele'
di Mariella Di Falco---13-11-2024 | |
Ciao a tutti. Sto leggendo un libro molto interessante che si intitola 'Il suicidio di Israele', di Anna Foa, la cui uscita giudico provvidenziale, dati i tempi di guerra in cui ci troviamo a vivere. Ho predisposto un piccolo riassunto della prima parte del libro, riguardante la storia della nascita del movimento sionista, con analisi delle motivazioni che stanno alla base della suo sorgere e delle trasformazioni avvenute al suo interno – tanto che, secondo l’autrice, sarebbe più corretto parlare di sionismi e non di sionismo. Solo due parole su Anna Foa, insegnante di Storia moderna alla Sapienza di Roma, nata a Torino nel 1944, di educazione e di famiglia antifascista (primogenita di Vittorio Foa). Si è occupata di storia della cultura nella prima età moderna, di storia della mentalità, di storia degli ebrei, come si legge nella quarta di copertina del libro. Prima parte - Storia Sionismo o sionismi? L’autrice prende atto di quanto sia diventata difficile di questi tempi la distinzione tra antisemitismo e antisionismo, e ci parla dell’isolamento in cui si trova ora Israele e il mondo ebraico e cerca di dare elementi per uscire da questa intricata e drammatica situazione. Il sionismo ha una lunga storia che precede la nascita dello Stato di Israele. Il movimento sionista è nato centocinquanta anni fa e si può definire una ideologia che sostiene gli ebrei un popolo e sostiene il diritto al ritorno nella loro terra originaria, la Palestina . Uno dei primi pensatori sionisti è individuato in Moses Hess, che scrisse nel 1862 un libro intitolato “Roma e Gerusalemme”. Il pensiero di Hess si può definire un pensiero radicale che segna uno stacco netto con il passato, che opera una rottura all’interno del mondo ebraico, per cercare di costruire una sua nuova identità. Questa nuova identità non si basa solo sul ritorno alla terra promessa (a quell’epoca la Palestina era sotto il dominio ottomano per poi divenire un protettorato inglese) ma, soprattutto, si pone in una posizione di strappo netto con la diaspora, e, quindi, con gli oltre duemila anni di vita degli Ebrei vissuti in varie parti del mondo, ma soprattutto in Europa, dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme avvenuta nel 70 D.C. ad opera dell’imperatore romano Tito. Il sionismo vuole creare un ebraismo nuovo, cancellare i venti secoli della diaspora, che sono visti come secoli di oppressione e di servitù. Se si rifiuta la diaspora, ne discende che si devono riconsiderare i termini del modo di vivere e gli spazi entro i quali gli ebrei erano vissuti fino ad allora. La parola diaspora non a caso in lingua ebraica viene detta Galut, che letteralmente significa esilio. Il movimento sionista si riappropria della lingua ebraica, mai completamente abbandonata perché mantenuta nella vita religiosa. In questa ottica il pensiero sionista nasce in opposizione alla diaspora e alla vita degli ebrei come minoranza sparsa nelle nazioni. Viene messo in discussione il concetto di assimilazione degli ebrei nella società non ebraica, perché ciò significa perdere l’identità ebraica. Quindi, la diaspora si oppone al sionismo. L’integrazione derivante dalla diaspora non basta più a garantire un luogo legittimo entro cui gli ebrei possono vivere: solo all’interno di uno Stato ebraico, gli Ebrei avranno la legittimità necessaria. Ma di quale società è figlia il sionismo? Secondo Anna Foa più che dell’Europa occidentale emancipata di fine ottocento, dove gli ebrei erano divenuti a pieno titolo cittadini, il sionismo è figlio della Russia zarista, travagliata dai pogrom ( come quello del 1903 a Kishinev). La classe dirigente delle comunità ebraiche che abitavano la Palestina prima della nascita dello Stato d’Israele (chiamate Yishuv in lingia ebraica) proveniva dalla Russia. Ma dalla Russia proviene anche il partito bolscevico cui aderiscono tanti ebrei russi. Quando nasce il sionismo? Anche la data di nascita del sionismo è controversa. Molti lo fanno risalire al 1862, anno della pubblicazione di “Roma e Gerusalemme”, altri al 1882, con la prima emigrazione dalla Russia e altri ancora al 1896 anno della pubblicazione del libro di Herzl “Lo Stato ebraico”. Anche la scelta di un territorio dove poter fondare lo Stato ha avuto nel tempo varie soluzioni. In un primo tempo si pensò all’Argentina (Leo Pinker 1882). La scelta della terra di Israele fu fatta dai delegati sionisti russi ed era frutto di una visione più culturale che politica del sionismo: non si trattava, infatti, solo di salvare gli ebrei dai pogrom della Russia zarista, dando loro una patria, ma si trattava anche di rinnovare la cultura e la spiritualità degli ebrei, come sosteneva Achad Ha’am. Pur essendo consapevoli del fatto che la terra dove si voleva fondare lo Stato d’Israele non era affatto disabitata, tuttavia già dalla seconda metà del 900 negli ambienti sionisti si usava la formula: “Un popolo senza terra per una terra senza popolo”, dimostrando una sottovalutazione della resistenza araba che si formò a partire dal 1921. Un’altra data importante da tenere a mente è il 1917, anno in cui venne proclamata la dichiarazione di Balfour sul focolare degli ebrei. Tale dichiarazione in un primo momento fu accettata dal mondo arabo, tanto che l’emiro Faysal e il presidente dell’organizzazione sionistica mondiale Chaim Weizmann firmarono un accordo in cui si accettava la dichiarazione di Balfour. Ma nella conferenza di pace di Parigi (1919) Faysal venne sconfitto e la sua posizione messa in minoranza. Il nazionalismo arabo dalla Siria spostava il suo centro in Palestina. Nel 1921 e nel 1929 ci furono sanguinose rivolte antisioniste in Palestina. L’ostilità anti ebraica degli arabi non era solo un conflitto sulla terra palestinese, ma era anche un conflitto culturale. Gli arabi avevano convissuto senza problemi con la comunità ebraica che abitava la Palestina, anche sulla base di una somiglianza nelle modalità di vita delle due comunità, ma con l’arrivo dei socialisti sionisti, portatori di una concezione egualitaria dei rapporti tra i sessi, di una visione moderna del mondo la convivenza pacifica tra le due comunità cominciò a vacillare. Si passa, quindi, da una sostanziale convivenza con le prime due ondate di emigrazione nei primi vent’anni del secolo, quelle del 1904 e del 1919-1920 a una violenta reazione anti ebraica, con un rafforzamento dell’identità araba. Molti intellettuali ebrei speravano in una convivenza tra arabi ed ebrei in un futuro Stato ebraico e nel 1925 fu fondato un gruppo di 200 intellettuali (tra cui Martin Buber, Yehuda Magnes, Gershom Scholem) che si chiamava Brit Shalom, Patto per la pace, che auspicava la creazione di uno Stato binazionale ebraico ed arabo, dove ebrei e arabi godevano degli stessi diritti. Anche la sinistra del movimento sionista , il partito Mapam, era favorevole ad uno Stato binazionale. Fino al 1936, l’intero movimento sionista era favorevole a uno Stato binazionale e a una pacifica convivenza con gli arabi, anche se vi erano delle differenze di strategia per realizzare questo obiettivo. Il movimento guidato da Vladimir Zeev Jabotinsky, i cosiddetti revisionisti, volevano imporre con la forza il loro progetto sionista agli arabi e solo dopo l’accettazione del progetto sionista, si sarebbe potuta accettare la possibilità di garantire uguali diritti ad ebrei e arabi all’interno di una concezione binazionale. Ma il punto di svolta è la grande rivolta del 1936, organizzata dal Gran Mufti contro gli ebrei e contro gli inglesi, che mette la parola fine a qualunque ipotesi di accordo tra l’Yishuv - e cioè la comunità ebraica presente in Palestina prima della nascita dello Stato d’Israele - e gli arabi. L’avvento del nazismo cambiò la situazione della diaspora in Europa, di conseguenza anche il movimento sionista cambiò la concezione della Palestina. Se prima del nazismo la Palestina non era considerato un luogo destinato ad accogliere tutti gli ebrei della diaspora, ma era considerato un posto dove creare un nuovo modo di essere ebrei e inventare un nuovo mondo, con il nazismo tutto cambiò e la corrente revisionista del sionismo con Jabotinsky sosteneva la necessità di una emigrazione di massa degli ebrei europei per evitare la catastrofe. E infatti tra il 1933 e il 1937, 475.000 ebrei emigrarono in Palestina, grazie agli accordi tra Ben Gurion e il Terzo Reich. Le cose cambiarono nel 1939 quando gli inglesi non diedero seguito al Libro Bianco per la costituzione dello Stato d’Israele e limitarono moltissimo le emigrazioni, per il timore che gli arabi appoggiassero i Paesi dell’Asse. Nel 1942 con la sconfitta di El Alamein gli ebrei della Palestina furono salvi. Intanto, cominciavano a ad arrivare notizie sullo sterminio degli ebrei nei campi. Il movimento sionista proclamò nel 1942 che il loro obiettivo nel dopoguerra era l’insediamento di uno Stato ebraico nel contesto del nuovo ordine internazionale democratico: non si parla più di uno Stato binazionale. Finita la II guerra mondiale, gli ebrei sopravvissuti si trovavano senza un luogo dove far ritorno. Tra la fine della guerra e il novembre 1947, data della risoluzione dell’Onu che sanciva la spartizione e la nascita di uno Stato ebraico accanto a uno Stato palestinese, emigrarono in Palestina 120.000 ebrei. Il 1948 è l’anno chiave per il movimento sionista: nasce lo Stato d’Israele, ma non c’è l’accettazione da parte degli Arabi della risoluzione Onu che la sanciva. Seguì una guerra (guerra del 1948) con la Lega araba e la cacciata di molti palestinesi dalle loro terre e abitazioni (Nakba). I palestinesi che rimasero sotto il governo di Israele, per la maggior parte mussulmani, ottennero la cittadinanza e una uguaglianza giuridica e cioè diritto di voto, di libertà di stampa, di organizzazione politica. La lingua araba era una lingua ufficiale dello Stato. Se dal punto di vista giuridico questi erano dei principi importanti, tuttavia, nella vita di tutti i giorni la convivenza non era facile, perché vi erano differenze di status tra le due comunità e anche una cultura di sospetto verso il “nemico”. Non contribuì a rasserenare la convivenza tra le due comunità né l’attacco al villaggio palestinese di Deir Yassin avvenuto ad aprile del 1948 ad opera di un gruppo paramilitare israeliano né un episodio analogo avvenuto nel 1956 nel villaggio di Kfar Kassem, sulla frontiera giordana. Questi due episodi divennero simboli della lotta per la liberazione della Palestina. Dopo il 1948 seguirono dei tentativi per giungere a un accordo di pace tra Israele da una parte e Siria, Egitto e Giordania dall’altro. Ma né Israele né gli Stati arabi sfruttarono questa possibilità. Nel 1952 Nasser andò al potere in Egitto, l’Unione Sovietica ruppe i rapporti con Israele e appoggiò l’Egitto, fornendo anche armi. Israele non aveva ancora l’appoggio degli Stati Uniti, ma aveva l’appoggio della Francia, che inviava anche armi al nuovo Stato. La nazionalizzazione del canale di Suez ad opera di Nasser fu una causa della guerra del 1956. Francia, Inghilterra e Israele si allearono contro l’Egitto, ma la guerra ebbe fine quasi immediata perché Stati Uniti e Russia si misero d’accordo. Israele si ritirò dal Sinai, ottenendo però la libertà di navigazione nel Golfo di Aqaba e l’interposizione di truppe Onu a Gaza e a Sharm el-Sheikh. L’alleanza di Israele con la Francia e la Gran Bretagna fece sì che prendesse forma nel mondo arabo la percezione che Israele fosse alleato con l’imperialismo occidentale. Per dieci anni Israele godette di un periodo di pace, anche se era presente una guerra sotterranea con i paesi arabi, specialmente con l’Egitto. Il 5 giugno 1967 scoppia la cosiddetta guerra dei sei giorni: l’aviazione israeliana attacca l’Egitto. Lo scoppio della guerra è causato da una crescente tensione al confine di Israele con la Siria e dalla chiusura del golfo di Aqaba alle navi israeliane da parte dell’Egitto. La vittoria di Israele è netta. Ma cosa fare dei territori conquistati e soprattutto come conquistare la pace ? Mentre gli ultranazionalisti chiedevano la pura e semplice annessione dei territori occupati, intellettuali come Leibowitz, ebreo ortodosso, negavano ogni diritto divino degli ebrei sulla terra d’Israele e ammonivano gli israeliani che l’occupazione dei territori conquistati avrebbe trasformato gli ebrei in “giudeo-nazisti”. Già questo paragone era stato fatto in occasione della distruzione del villaggio Kfar Kassem Anna Foa sottolinea come il paragone con i nazisti ha origine in Israele da parte di israeliani, che certo non possono essere accusati di antisemitismo, ma sono solo preoccupati della salvaguardia dei principi morali dell’ebraismo. Con l’occupazione di Gerusalemme est, il sionismo modificava il suo profilo: ora l’israeliano sionista è un religioso, ispirato da Dio, che vuole colonizzare la terra d’Israele a tutti i costi, che sostengono il legame profondo e sacro tra ebrei e terra d’Israele. Anna Foa sottolinea che non solo i governi di destra favorirono la colonizzazione dei territori occupati, ma anche i governi laburisti che tra il 1967 e il 1973 crearono numerose zone di colonizzazione nei territori occupati. Intanto, nel 1964 nasce l’OLP, l’organizzazione palestinese di resistenza per opera di Yasser Arafat, già leader di Al Fatah, prima organizzazione di resistenza fondata negli anni ’50. Fu redatta una Carta che considerava illegale l’esistenza dello Stato di Israele - e questo principio rimase fino al 1988 – che sosteneva il ritorno di tutti i profughi palestinesi e propugnava la lotta armata. Ma dopo un fallito tentativo di insurrezione, l’OLP adottò la tecnica terroristica sia all’interno dello Stato di Israele sia in ambito internazionale. La fine della guerra dei sei giorni non porta la pace in Israele, nonostante la morte di Nasser e la crisi dei rapporti dell’Egitto con l’URSS Nel 1973 Sadat scatena la guerra del Kippur. Dopo una prima fase di vittoria da parte degli egiziani che attraversano lo stretto di Suez e i siriani che riconquistano il Golan, l’esercito israeliano lancia la controffensiva, grazie anche all’aiuto del ponte aereo statunitense. Dal punto di vista politico per Israele è una sconfitta tanto che Golda Meir si dimette e subentra Yitzhak Rabin. Nel 1973 iniziano a Ginevra le trattative per la pace tra Israele e l’OLP, ma anche questi non ebbero esito positivo. Se è vero che dal 1947 in poi i paesi arabi e i palestinesi hanno rifiutato ogni accordo con Israele e che fino al 1998 l’OLP non riconosce il diritto a esistere dello Stato di Israele, è anche vero che Israele non era disponibile a trattare su importanti punti come: i confini e, soprattutto, il ritorno dei profughi palestinesi, questione sempre respinta da Israele. I profughi nel frattempo da 6-700.000 mila erano diventati due milioni e mezzo, con tutte le conseguenze che si possono immaginare. L'estratto della 2a parte è in lavorazione. | |