'Verso la Pace'. Terza e ultima parte del libro di Anna Foa
di Mariella Di Falco---06-12-2024
Siamo arrivati all’ultima parte del libro di Anna Foa, che si intitola “Verso la Pace”.
Dopo aver tracciato una storia impegnativa e complessa degli ebrei della diaspora e della nascita dello stato d’Israele, si descrivono le proposte per uscire dalla attuale situazione di conflitto e andare verso la pace. Cosa non semplice, vista anche la fragilità del cessate il fuoco con il Libano, dichiarata pochi giorni fa che ancora non si è effettivamente realizzato, per non parlare delle ultime notizie sulla Siria.
Dalla nascita dello Stato di Israele molte volte si è stati vicini alla pace, con la firma di accordi che poi all’ultimo non sono stati sottoscritti dalle parti.
Ripercorriamo le fasi principali.
Nel 1978 Sadat presidente dell’Egitto annunciava di essere disposto a trattare direttamente con Israele, scavalcando le trattative con i palestinesi, che si stavano tenendo a Ginevra e, cosa molto importante, riconosceva lo Stato d’Israele.
Non fu possibile estendere l’accordo agli altri Paesi arabi e all’Olp per disaccordo tra le varie parti.
La pace tra Egitto e Israele non cambiò le cose in modo definitivo. Intanto, nel 1981 Sadat veniva ucciso.
Nel 1982 scoppiò la guerra con il Libano
Nel 1987 scoppia la prima intifada, ma con i laburisti al governo di Israele si inizia una breve stagione di vere e proprie trattative, che portano alla conferenza di Madrid e nel 1993 agli accordi di Oslo siglati da Arafat e Rabin: questi accordi sancivano la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese, primo nucleo del futuro Stato palestinese che doveva sorgere nella West Bank e nella striscia di Gaza. La strada sembrava avviata.
Ma accadono due episodi ad opera di estremisti della destra religiosa israeliana che provocano un cambiamento nella direzione appena intrapresa: nel 1994 un attentato nella moschea di Hebron dove morirono 29 palestinesi e nel 1995 l’uccisione di Rabin. La destra israeliana aveva intessuto una vera e propria campagna di odio contro Rabin, giungendo a paragonarlo ai nazisti. Seguirono nelle città israeliane numerosi e sanguinosi attentati e a questo punto il percorso di pace iniziato con gli accordi di Oslo furono interrotti.
Nel 2000 si ripresero a New York le trattative tra Arafat e il primo ministro israeliano Ehud Barak, con la mediazione del Presidente Clinton e del re Hussein di Giordania.
Intanto, altro passo importante viene compiuto nel 1998: l’OLP riconosce Israele, “superando la pregiudiziale nei confronti dell’esistenza di Israele”.
Nel 2007 ci fu una conferenza di pace ad Annapolis con il presidente Bush, Abu Mazen ed Ehud Olmert.
Sia la conferenza di New York sia quella di Annapolis fallirono: da un lato per la intransigenza palestinese, in particolare di Hamas che, nel frattempo, aveva preso il controllo di Gaza e dall’altro per il rifiuto della destra religiosa ebraica.
La stagione delle trattative non prese più avvio e, una volta andato al potere, Netanyahu si oppose fortemente alla trasformazione in Stato autonomo dell’Autorità Palestinese e gli accordi di Oslo furono sepolti per sempre.
Come si presentava la situazione ? Da un lato gli insediamenti nei territori della West Bank continuavano ad aumentare, pur essendo considerati alcuni di essi illegali anche dal governo israeliano e dagli organismi internazionali e dall’altro cresceva l’influenza di Hamas a Gaza.
Per garantire la sicurezza allo Stato d’Israele e ai suoi abitanti, il parlamento israeliano votò l’erezione di un muro tra Israele e i territori della West Bank, a tutt’oggi non ancora terminato; di conseguenza sono cresciuti i check point per tenere il più possibile separati gli spazi tra le due comunità.
E’ a partire dalla costruzione del muro che si diffonde anche fra gli israeliani l’uso del termine apartheid, termine che ha uno stretto collegamento con quello di razzismo. Secondo Anna Foa l’uso di questo termine per definire la situazione dei palestinesi non è appropriato, perché il regime dell’apartheid in Sudafrica implica (o meglio implicava) una separazione totale del mondo dei neri dal mondo dei bianchi, mentre ad Haifa, ad esempio, la percentuale di studenti arabi all’università è del 40% e a Gerusalemme l’Università ebraica è frequentata da un 13-15% di studenti di Gerusalemme Est.
Ma se si vedono le cose da un altro punto di vista e cioè le interminabili attese dei palestinesi ai check point o le strade separate tra israeliani e palestinesi e altre vessazioni che si verificano nella quotidianità allora il discorso cambia.
Un’altra data importante nel percorso di pace è sicuramente il 2005 quando il primo ministro Ariel Sharon decide unilateralmente la restituzione totale della striscia di Gaza ai palestinesi e sgombra 7500 coloni israeliani che avevano nel frattempo creato 19 insediamenti illegali.
Nel 2006 le elezioni della striscia di Gaza conferiscono la vittoria ad Hamas; Abu Manzen, successore di Arafat, sospende le elezioni, ma la sua posizione si indebolisce, mentre si registra la crescita di Hamas anche nella West Bank. Inizia una guerra civile tra l’Olp e Hamas.
Ma come nasce Hamas ?
Hamas nasce all’indomani della guerra dei Sei giorni nella striscia di Gaza (che era divenuta israeliana) ed è legata alla Fratellanza Musulmana egiziana. Il sostegno che riesce ad ottenere tra i palestinesi è dovuto all’intensa politica sociale che svolge all’interno della comunità palestinese.
Nella sua Carta (1988), Hamas non riconosce lo Stato di Israele e appoggia la lotta armata. Molti tra i suoi fondatori sono profughi del 1948 e questa circostanza pesa nelle trattative di pace, perché nell’agenda palestinese il rientro dei profughi viene posto come una priorità.
Dopo il fallimento degli accordi di Oslo, i palestinesi si convincono sempre più che l’unica strada da percorrere sia quella delle armi e Hamas iniziò una numerosa serie di attentati suicidi, che ebbero come effetto quello di mettere in crisi ancora di più la fiducia della società israeliana nelle trattative di pace. Aumenta da parte di Israele il controllo alle frontiere di Gaza, sul suo spazio aereo e sulle sue acque territoriali e sono sorvegliati i valichi e i passaggi di persone e di merci.
Da Gaza si inizia il lancio di missili su Israele e si comincia la creazione di numerosi tunnel sotterranei per permettere l’approvvigionamento di cibo ed energia, perché sia Israele sia l’Egitto esercitano un controllo della striscia governata da Hamas. Negli anni 2009, 2012, 2014 e 2021 vi sono state guerre limitate fino alla strage del 7 ottobre 2023: situazione drammatica che sta portando alla distruzione della Striscia, ma non solo.
Questo è il quadro storico. Dato tutto questo, come se ne esce ?
Anna Foa tenta di tratteggiare una strada e parte dall’analisi fatta da Amos Oz contro il fanatismo e cioè contro quegli israeliani fanatici che credono di essere il popolo eletto da Dio e che vogliono ricostruire la grande Israele. I coloni religiosi vivono nelle colonie create nella West Bank e i loro insediamenti sono protetti da civili armati e dall’esercito. Il loro progetto nelle espressioni più fanatiche prevede la ricostruzione del Tempio (al posto di quello distrutto nel 70 d.C. ad opera dei Romani) e la distruzione delle moschee esistenti sulla spianata del Tempio. E ciò in completa opposizione con gli accordi in vigore tra Israele e Giordania che regolano l’utilizzo di questo settore: i musulmani possono recarsi a pregare e i non musulmani possono visitare tali luoghi. Tale accordo non è stato mai accettato dai sionisti religiosi, i quali, ispirandosi ai testi sacri, giungono a sostenere l’esatta ricostruzione del Tempio ed altri rituali risalenti all’antichità. A tale proposito Anna Foa ricorda come Hamas tra le principali motivazioni dell’attentato del 7 ottobre abbia posto la salvaguardia delle moschee nella spianata del Tempio.
Bisogna, comunque, dire che non tutti i sionisti vogliono ricostruire il Tempio e non tutti vivono nella West Bank; pur essendo forte l’ispirazione alla parola di Dio e ai testi sacri, ma non è, tuttavia, da trascurare un motivo pratico, legato ai costi.
A conclusione di un percorso conoscitivo della complessa storia dei rapporti tra Israele e Palestina, l’autrice pone una serie di domande, che hanno la finalità di comprendere le legittime aspirazioni delle due parti, per intraprendere un cammino che porti alla pace.
Domande
A oltre 75 anni dal raggiungimento dell’obiettivo rappresentato dalla creazione dello Stato ebraico cosa vuol dire sionismo oggi ? In Israele molto si dibatte su questo tema e si discute su questi punti.
Che cosa intendiamo per sionismo oggi? Qual è il rapporto con il sionismo del passato ? O meglio con i vari sionismi del passato ?
Non è giunto il momento di costruire una società civile democratica, di cittadini liberi e uguali nelle loro diversità? Come risolvere la contraddizione tra Stato ebraico (che si basa sulla supremazia degli ebrei) e Stato democratico (cittadini liberi e uguali nella loro diversità)? Si vuole uno Stato che per essere democratico deve offrire uguali diritti ai suoi cittadini o invece si vuole uno Stato solo degli ebrei, come proclama la legge varata nel 2018 da Netanyahu?
L’autrice cita anche lo storico Arturo Marzano, il quale già nel 2017 poneva la questione che se lo Stato d’Israele nato nel 1948 come Stato nazione del popolo ebraico aveva svolto il proprio compito, ora era necessario evolversi verso qualcosa di nuovo e cioè verso uno Stato democratico per tutti i suoi cittadini, a prescindere dalla appartenenza etnica, nazionale o religiosa.
Altri elementi di riflessione
*Ma qual è la definizione ufficiale di antisemitismo?
Una definizione è quella fornita dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Alliance) del 2016 che pone uno stretto legame tra antisionismo e antisemitismo. C’è poi la definizione di Gerusalemme del 2021, elaborata da ambienti accademici israeliani e americani, che definisce l’antisemitismo come “la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei in quanto ebrei (o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche). In altre parole, si distinguono le critiche al governo dello Stato di Israele da un atteggiamento antisemita. Quindi, il problema oggi è che, pur riconoscendo la crescita di atteggiamenti antisemiti nel mondo, l’accusa di antisemitismo non la si può estendere ad ogni voce di condanna della guerra di Gaza.
Chiarito questo, Anna Foa sostiene che se si usa la categoria dell’ antisemitismo in ogni circostanza si finirà per perderne la specificità e, soprattutto, la comprensione di quanto accade.
*Si chiede Anna Foa: che fare con gli studenti che gridano slogan antisemiti ?
E’ opportuno provare a parlare con gli studenti e richiamarsi all’insegnamento in base al quale la Shoah deve essere un monito per tutti i genocidi, non solo per il genocidio degli ebrei e che ciò che è successo nel passato non debba più succedere per nessuno.
*E il termine genocidio si può applicare a quanto succede a Gaza?
La questione è controversa, perché manca la condizione di intenzionalità, necessaria per definire il genocidio. Meno problemi si pongono per l’uso del termine “crimine contro l’umanità”.
Dal punto di vista politico e giuridico è molto importante questa distinzione, se si pensa, soprattutto, a come la Shoah abbia contribuito alla costruzione dell’identità dello Stato di Israele. Nel frattempo, che questa questione si risolva nelle sedi giuridiche internazionali, attualmente dal punto di vista concreto non cambia nulla per chi muore sotto le bombe, se la morte è causata da massacro o da genocidio.
*Nel mondo ebraico della diaspora vi è allarme per la crescita degli episodi di antisemitismo, ma Anna Foa condivide solo in parte questa paura e sottolinea che siamo ben lontani dal 1938 quando fu uno Stato che promulgò le leggi contro gli ebrei (antisemitismo di Stato).
Purtuttavia, alcuni atteggiamenti e prese di posizione sono allarmanti e andrebbero frenati come, ad esempio, la richiesta da parte di alcune università di interrompere i rapporti culturali con Israele. Se questo accadesse sarebbe deleterio, perché accrescerebbe la solitudine di Israele e, soprattutto, l’isolamento delle forze progressiste israeliane.
*Che dire dello slogan che si grida nelle manifestazioni “Dal fiume al mare, Palestina libera”?
E’ sicuramente uno slogan antisemita se si vuole intendere con esso la scomparsa dello Stato di Israele, ma proprio come accade per i sionisti religiosi che vorrebbero che dalla Giudea e Samaria scomparissero di palestinesi.
A tale proposito Anna Foa, riprendendo un concetto di uno studioso, Enzo Traverso, propone una interessante interpretazione dello slogan, inteso come libertà per tutti attraverso la creazione di uno Stato laico binazionale.
E’ una via stretta e difficile quella da percorrere tra Netanyahu ed Hamas.
Intanto, Israele è isolata nel mondo. La situazione è difficile soprattutto per i testimoni della Shoah: quando hanno parlato nelle scuole della loro triste esperienza e hanno insegnato “mai più a nessuno”. Ma ora – si chiede Anna Foa - come si può celebrare la memoria della Shoah, senza parlare del 7 ottobre e di Gaza?
Molte sono state le voci che hanno parlato di una pacifica convivenza e di un futuro diverso: Martin Buber, Achad Ha’am, Yeshayahu Leibowitz, Rabin, gli scrittori A.B. Yehoshua, Amos Oz, David Grossman. Oggi queste voci sono seppellite dal silenzio o anche denigrate.
Come non si può giustificare il massacro del 7 ottobre 2024 così non si può giustificare e chiudere gli occhi davanti al massacro di Gaza o alle parole di pulizia etnica pronunciate da alcuni ministri israeliani.
Destreggiarsi tra questi due opposti estremismi è molto difficile.
Il 7 maggio illustri personalità israeliane (Avraham Burg ed Eli Barnavi) hanno lodato la decisione di Spagna, Irlanda e Slovenia di riconoscere la Palestina e hanno chiesto che tutti i Paesi dell’Unione Europea prendano la medesima decisione, perché è il miglior modo di riconoscere il ruolo della diplomazia e chiudere una storia di violenza e di guerra.
Anna Foa conclude affermando che l’escalation dell’attuale governo non è la strategia vincente.
Ma con i necessari compromessi la pace ritornerà.
Ma la strada non sarà facile perché Israele dovrà trattare con chi ha fatto la terribile strage del 7 ottobre e i palestinesi dovranno trattare con chi ha distrutto le loro case e le loro famiglie.
Ci vorrà del tempo perché si rimargino le ferite, ma è l’unica strada.