Santa Maria della Pietà - Padiglione 17
di Simonetta Rossi---12-07-2024
Ai rifugiati che ci donano la possibilità di essere persone migliori
(Progetto FARI)
Dopo aver attraversato S. Maria della Pietà, tra strade riasfaltate e verde che definirei lussureggiante, arrivo finalmente, proprio in fondo, al Padiglione 17. Mi ha guidato la curiosità, in quanto avevo saputo che nell'ottobre dello scorso anno vi si era svolta una sfilata di abiti, in perfetto stile fusion tra Africa e Occidente, creati e indossati da coloro che qui avevano seguito un corso di Alta Sartoria.
Un camion, pieno di grossi tubi grigi, ostruisce l'entrata: servono per l'orto verticale, uno dei tanti percorsi di formazione per i rifugiati portati avanti dal Progetto FARI. All'interno del Padiglione, ristrutturato di recente, pulito, ordinato e tranquillo vengo accolta dalla Dr.ssa Silvia Capretti, tecnico di riabilitazione psichiatrica, che mi illustra questo Progetto, unico in Italia.
Il Centro di salute per migranti forzati (SaMiFo), in collaborazione con la ASLRoma1 e il Centro Astalli, nasce con l'obiettivo di tutelare la salute fisica e mentale dei richiedenti asilo e dei titolari di protezione internazionale e nazionale: la popolazione assistita è composta prevalentemente da migranti forzati maggiorenni, da vittime della guerra, di tortura e di violenza internazionale, di abusi sessuali e di mutilazioni dei genitali femminili. Il Centro ha garantito e garantisce loro l'alfabetizzazione sanitaria e la fruibilità dei servizi sanitari, attraverso l'accoglienza e la presa in carico. Ad esempio, tra il 2007 e il 2018 sono stati iscritti al nostro Servizio Sanitario circa 12.000 tra richiedenti e bisognosi di protezione: uomini, ma anche donne (stanno aumentando sempre più), che hanno usufruito in tutto di almeno 140mila prestazioni sanitarie.
Il Progetto Fari (Formare Assistere Riabilitare Inserire) si pone come obiettivo principale quello di fornire risposte efficaci ai bisogni di salute fisica e mentale di richiedenti e di titolari di protezione internazionale (RTPI), anche minori, attraverso modelli sanitari innovativi e integrati. Tra i risultati attesi anche quello di ottenere l'inserimento socio-lavorativo dei RTPI, pure se affetti da disturbi mentali, in percorsi di riabilitazione sociale e acquisizione di specifiche competenze, con erogazione di indennità per il training on the job.
Per quanto concerne quindi il Padiglione 17, esso è divenuto il punto di riferimento delle attività riabilitative e di acquisizione di specifiche competenze del progetto FARI, attraverso laboratori della durata di tre mesi: agricoltura sociale, manutenzione del verde, ristorazione, artistico, multimediale, sartoriale. E quest'ultimo è proprio quello che mi aveva incuriosito, e che aveva avuto più risonanza.
La sala dove c'è la sartoria è molto grande. Intorno ai tavoli signore, alcune con il capo velato, intente a tagliare la stoffa, oppure a cucire a mano o a macchina. Attaccati al muro decine di modelli di carta, mentre i risultati finali del loro lavoro sono appesi alle grucce: camicette, gonne, giacche sgargianti, frutto della loro fantasia e abilità. Dell'insegnamento si occupano docenti e stilisti della Accademia di Moda Maiani, ma talvolta succede che qualche migrante ritorni in veste di docente poiché, dopo aver imparato le tecniche sartoriali, si è inserito nel mondo del lavoro in Italia. E' successo a un biologo marino eritreo che si è trasformato in un eccellente sarto.
Nel laboratorio di cucina (funzionale e immacolato) ho incontrato Fabio Pisano, cuoco dell'Associazione “A tavola con lo chef” che stava insegnando alle allieve come fare gli gnocchi (avrei volentieri seguito il corso anche io!). Pisano mi ha esternato le difficoltà legate alla lingua e alla cultura di chi frequenta il suo corso, ma è convinto che se le sue studentesse vorranno e potranno lavorare in Italia, dovranno prima di tutto apprendere comportamenti consoni in cucina (le differenze tra le culture sono enormi) e in che modo cucinare i piatti italiani più richiesti, Dopo le 300 ore di tirocinio, chi vuole ed è in grado, potrà seguire uno stage di 5 mesi in uno dei ristoranti che si offrono di accoglierli. Questo dà una chance in più ai migranti per poter essere inseriti nell'attività produttiva.
Con discrezione mi affaccio nell'aula multimediale, dove si studia l'uso del computer, e nell'aula artistica, nella quale oggi non ci sono studenti. Posso però ammirare alle pareti e sui cavalletti le loro opere pittoriche, che mi aspettavo diverse, e che invece, attraverso colori vivaci e solari, infondono allegria e speranza. Il laboratorio è organizzato e guidato dal Consorzio Ro.Ma.
I docenti e i mediatori dei diversi laboratori fanno parte di Associazioni che hanno presentato progetti di formazione e vinto concorsi dedicati.
La dr.ssa Caretti e la dr.ssa Micol Maggio Tummiolo, antropologa, ribadiscono che il compito di questi laboratori professionalizzanti è certamente l'acquisizione di un'autonomia socioeconomica. linguistica, lavorativa. Dopo la conclusione dei laboratori è importante che nelle strutture territoriali vengano attivati tirocini, anche per un'inclusione sociale di questi rifugiati.
Molti altri progetti si occupano dell'accoglienza, dell'inclusione e della formazione dei rifugiati. Rifugiati, mi racconta la dott.ssa Tummiolo, che hanno storie tragiche alle spalle e che hanno anche bisogno di sostegni psicologici, oppure psichiatrici o ginecologici (presso il S. Filippo Neri, ad esempio, c'è un centro per le mutilazioni genitali e la disinfibulazione). Lei stessa è una tutor per coloro che hanno concluso l'esperienza laboratoriale e che sperano di essere inseriti in famiglie di accoglienza, o di poter andare a scuola o di trovare un lavoro. Il suo compito è perciò quello di indagare sul passato dei rifugiati, sulla loro storia e anche sulla eventuale possibilità di tornare nel proprio Paese. Tutto questo in collaborazione con il CIES, con l'Associazione Refugees Welcome Italia, con la Caritas, con ICARE.
Uscendo dal Padiglione, mi accorgo che i tubi sono stati sistemati lì attorno e gruppi di persone vi lavorano immettendo terra, semi che, come nella piccola serra accanto, daranno piante aromatiche e verdure da utilizzare nel laboratorio di cucina.
Mentre mi allontano non posso fare a meno di pensare a ciascuno di coloro che ho incontrato, donne soprattutto, certamente attente al proprio lavoro, ma, forse, intente soprattutto a dimenticare (se mai sarà possibile) gli orrori del passato, aiutate da una rete di supporto e da punti di riferimento che, si spera, possano non essere soltanto temporanei.