da un editoriale di Repubblica
di Rodolfo Lichtner---29-05-2023 | |
Poiché la sfida culturale lanciata da Giorgia Meloni si gioca sul peso da attribuire alle parole e sullo spazio che nel discorso pubblico si conquistano i concetti, forse vale la pena di riflettere sul cambio di linguaggio, ma soprattutto sulla sostituzione in corso dei riferimenti culturali che sono alla base della vita politica e istituzionale del Paese, e determinano quel linguaggio. È in atto infatti uno slittamento semantico che ha tutte le caratteristiche di un cambio di stagione, e sta già mutando il paesaggio culturale italiano. Se una volta il re era taumaturgo, e guariva dal male imponendo le mani, oggi il moderno potere è eloquente, perché non solo influenza il linguaggio ma lo corregge e lo ricrea: sovrano è, potremmo dire, chi controlla il dizionario con cui parla il Paese, e se è il caso, lo riscrive. Il recupero del termine 'patriota' rappresenta l'esempio più emblematico di questo processo, perché racchiude in sé un significato storico, politico e immediatamente ideologico. Ma in più è il risultato di una selezione e insieme di un'auto-certificazione. Il concetto di patria infatti riemerge dai disastri dell'abuso retorico mussoliniano, che l'ha strumentalizzato ideologizzandolo per nutrire e coprire la dittatura. Resuscitato, rischia di vivere in sovrabbondanza nell'interpretazione che ne fa la destra, perché ideologicamente si carica di un significato supplementare rispetto a quello suo proprio: diventa cioè un termine-metafora, che indica una cosa e qualcos'altro in più, che non si può ancora dire ad alta voce nella discussione pubblica, ma a cui si può alludere costantemente. Non soltanto la terra dei padri con un'eredità riconoscibile di storia condivisa, lingua comune, esperienze collettive, ma una comunità che da genealogica diventa ideologica, di destino e di fede, e attende soltanto una moderna rappresentazione politica che la interpreti. In questo senso la parola 'patria' va al di là di se stessa, si ricongiunge al passato, riverbera le sue suggestioni, battezza la fase che viviamo, mentre separa invece di includere. Perché il moderno 'patriota' è chi partecipa coscientemente a questa promessa simbolica, e accetta di aderire - se vogliamo trovare una formula - a una interpretazione ideologica dell'Italia. I 'patrioti' diventano così i protagonisti di questa idea politica del Paese, e insieme i detentori del potere di identificazione di altri 'patrioti' possibili: un circolo chiuso, che privatizza il concetto stesso di 'patria', lo riduce ad una sola dimensione politica, lo amministra in esclusiva, trasforma gli avversari in traditori, almeno disertori, se non rinnegati. C'è un'altra idea di patria, naturalmente, che legge il divenire del Paese attraverso il giudizio del secolo e le lezioni della storia, e assume l'Europa come orizzonte quotidiano e i valori di democrazia e di libertà come criterio di giudizio e di gerarchia. Ma la destra non ha alcun interesse a condividere il concetto di patria, dentro una definizione comune. Andiamo avanti dunque con due patrie, che per qualsiasi Paese sono troppe. Mentre si scivola individualmente dall'identità di cittadino a quella di 'patriota', si trasloca collettivamente dalla dimensione dello Stato a quella della Nazione. È ciò che stiamo vivendo. Tutto si tiene, nel panorama culturale della nuova destra costruito con ideologica coerenza, fino al punto da autorizzare il governo a denunciare il pericolo di 'sostituzione etnica', evocando 'un'etnìa italiana da tutelare'. In questo disegno la Patria affonda nella storia come destino, la Nazione si costruisce nell'eredità etnico-genealogica, affidando al sangue e al colore della pelle la garanzia del deposito identitario, perché nella trasmissione generazionale si preservi dalle contaminazioni del globale. Si capisce perché il presidente della Repubblica abbia sentito il bisogno di ricordare che c'è l'uomo prima dell'uomo bianco, in quanto è la persona - e non l'etnìa - che ha necessità di protezione. Siamo infatti davanti al tentativo, nello squilibrio della modernità, di far prevalere l'ethnos sul demos, cioè l'eredità culturale, religiosa, linguistica sulla coscienza contemporanea dei diritti, del diritto, dei vincoli reciproci tra i cittadini. È il duello culturale appena iniziato tra la cultura della nascita come fatto per sempre determinante e la cultura della crescita come sviluppo di un'identità sociale aperta al mutamento. | |