Una sanità fragile, da riparare al più presto
di Mara Gasbarrone---17-05-2020 | |
Perché solo in italiano abbiamo due termini distinti, per indicare la sanità (l’insieme di ospedali, medici di famiglia, infermieri...) e la salute (delle persone), mentre in inglese “health” si applica a tutti e due gli ambiti, e lo stesso vale in francese per “santé”? Sarà una domanda oziosa, ma in questi mesi di lock-down ho avuto tutto il tempo di pormela, senza peraltro trovarvi una risposta. Devo ammettere che – nel caso italiano – è molto utile disporre di due termini distinti: fino ad anni recenti, siamo riusciti a realizzare il paradosso di una salute relativamente buona e di una parallela contrazione dell’infrastruttura sanitaria, soprattutto pubblica. Così lo sintetizzava l’ultimo rapporto Osservasalute del 2018: “L’ottimo risultato complessivo di salute, in Italia, è stato raggiunto finora con un livello di spesa sanitaria (totale, pubblica e privata), sia pro capite (2.477 euro) che in percentuale sul Pil (8,9%), inferiore a quello di altri Paesi europei con simile speranza di vita, come la Svezia (rispettivamente, 5.126 euro e 10,9%) e la Francia ( 3.847 euro e 11,5%)”. Un risultato quasi prodigioso, ma esposto a tutte le incertezze strutturali prevedibili (invecchiamento della popolazione, crescente cronicità, diffusione delle malattie neurodegenerative, introduzione obbligata di innovazioni tecnologiche) e imprevedibili o impreviste, come l’attuale pandemia. La speranza di vita italiana è ai vertici della graduatoria mondiale, e fino ad anni recenti continuava a crescere regolarmente. Nei quattro anni compresi fra il 2009 e il 2013 siamo passati da 81,8 a 82,9 anni di speranza di vita alla nascita (calcolata per l’insieme della popolazione, senza distinzione di sesso); ma nel successivo periodo di 4 anni fra il 2014 e il 2018 il guadagno è stato molto più contenuto, non più un anno abbondante ma solo un paio di mesi, da 83,2 a 83,4 anni. Nel 2015, ricorda l’Ocse, per la prima volta dal 1970, la speranza di vita è diminuita nella media Ocse e in particolare in 19 paesi. Stili di vita sbagliati, con crescente obesità, sedentarietà e dipendenza dal fumo , ma anche le crescenti irregolarità del clima, con inverni freddi ed estati insopportabili, una minore copertura vaccinale per l’influenza, la maggiore fragilità di una popolazione invecchiata, sono tutti fattori che concorrono a spiegare l’arresto di quella che sembrava una marcia trionfale. Arresto non solo italiano, ma esteso a larga parte del pianeta. In un paese come gli Stati Uniti, una vera e propria “epidemia” sta falcidiando la popolazione maschile adulta, soprattutto a causa di suicidi e abuso di droghe. Al definanziamento della spesa pubblica per la sanità si è accompagnato il sistematico privilegio del settore privato (inteso come imprese private operanti nella sanità) in quanto destinatario di una quota crescente della spesa pubblica, specialmente in alcune regioni come la Lombardia, mentre ad un altro privato, inteso stavolta come cittadini e famiglie, è stato scaricato addosso il finanziamento di una fetta via via crescente di spesa sanitaria, aggiuntiva rispetto a quella pubblica (ad esempio, odontoiatria e riabilitazione sono di solito pagati dalle famiglie). Riassumiamo. La spesa sanitaria totale nel 2017 in Italia ammontava a 155 miliardi di euro, cioè l’8,9% del Pil . Di questi, 113 miliardi sono spesa pubblica, pari al 6,2% del pil nazionale, e 42 miliardi sono spesa privata. Della spesa privata, detratti i 6 miliardi intermediati da fondi sanitari e polizze assicurative, ben 36 miliardi sono definiti “out-of-pocket”, cioè provengono dal portafoglio delle famiglie, in percentuale il 23% della spesa sanitaria complessiva. Non tutte le famiglie, peraltro, se lo possono permettere. Secondo l’Istat, su una popolazione di 60 milioni di abitanti, quelli che per ragioni economiche rinunciano a visite o accertamenti specialistici sono 4 milioni, un po’ meno del 7%. In media, le famiglie italiane spendono per servizi sanitari e salute 121 euro mensili, cioè il 4,7% della loro spesa per consumi, quota che sale al 6,4% per le famiglie con capofamiglia con licenza elementare, presumibilmente più anziane e più povere, e che scende al 3% (pari a 50 euro) per le famiglie di stranieri. Quello dell’uguaglianza è il primo problema che si porta con sé, non da oggi, la sanità. C’è un aneddoto molto ripetuto nei congressi scientifici, che esprime il concetto in modo molto efficace: “Il tram numero 3 che attraversa Torino gode di una sorprendente popolarità. Il suo percorso di 45 minuti è mostrato ai congressi di medicina e di economia: allontanandosi dalle ville ai piedi della collina e dirigendosi verso il quartiere industriale delle Vallette, i residenti perdono cinque mesi di vita per ogni chilometro percorso. I primi hanno un’aspettativa superiore agli 82 anni, gli altri non raggiungono i 78. Alla disuguaglianza sociale, si somma in Italia una disuguaglianza territoriale, che ne amplifica gli effetti. La distribuzione delle competenze fra Stato e Regioni ha determinato l’esistenza di 21 sistemi sanitari regionali differenti, che rendono inefficace il principio costituzionale di eguaglianza fra i cittadini. Ad aggravare il problema istituzionale, c’è l’asimmetria tra la responsabilità della spesa (in capo alle Regioni) e quella della raccolta del finanziamento (in larghissima parte proveniente dalla fiscalità generale, e quindi dello Stato, principalmente attraverso l’Irap). Il volume di spesa pubblica destinata alla Sanità (113 miliardi nel 2017), molto rilevante per un paese fortemente indebitato come l’Italia, ha subito negli anni sistematici tagli, avvenuti con riduzioni di personale e concentrazione dell’offerta sanitaria nelle strutture ospedaliere più grandi. Le strutture di cura sono passate da 1.378 nel 2002 a 1.091 nel 2016, eliminando piccoli ospedali disseminati nel territorio e “risparmiando” su assunzioni di nuovo personale, attualmente in età media elevata e numericamente insufficiente. Proprio oggi, dopo l’epidemia, si rivaluta il ruolo della medicina di prossimità, dei medici di base, dei presidi sanitari territoriali, che proprio le reti informatiche potrebbero rendere più adeguati di quelli del passato. Ovviamente, non si tratta di ritornare al déjà vu dei piccoli ospedali di paese, poco efficienti e relativamente costosi. La pandemia ha sconvolto le “graduatorie” sanitarie internazionali. Mentre l’epidemia è in itinere, certamente hanno poco senso le graduatorie fra paesi o fra regioni, sempre provvisorie e destinate a mutare, con l’accendersi di nuovi canali di contagio. Su worldmeter, il sito di riferimento per le statistiche internazionali, consultato oggi 17 maggio, si leggono 96 morti per milione di abitanti in Germania, 591 in Spagna, 525 in Italia, 508 nel Regno Unito, 781 in Belgio, valore massimo fra i paesi europei. Ammesso che questi numeri misurino l’efficienza della sanità dei singoli paesi (e in parte è così) oggi il primato spetterebbe sicuramente alla Germania, che ha speso per la sanità nel 2017 una quota dell’ 11,2% del Pil, equivalenti a 4.459 euro per abitante, contro i nostri 2.523, ciò che le ha consentito di trovarsi preparata di fronte all’inizio dell’emergenza, con una dotazione adeguata di posti di terapia intensiva (34 per 100 mila persone, contro 8,6 per l’Italia) e con il pronto ricorso all’uso massiccio e sistematico di tamponi. Ma anche una sanità iper-diffusa, con 1.400 ospedali, dei quali prima si raccomandava la chiusura, e che invece sono stati – alla prova della pandemia – un fattore di forza. Una ridondanza nell’attrezzatura di base può essere letta come diseconomia, ma anche come un’opportuna misura di sicurezza. L’epidemia ha favorito il dispiegarsi di spregiudicate manovre di geopolitica sanitaria, dal soft power di Pechino che cercava di far dimenticare i suoi colpevoli ritardi attraverso forniture di dispositivi di protezione, al tentativo dell’amministrazione Trump di comprare il brevetto di un vaccino tedesco in esclusiva per gli Usa, fino all’utilizzo da parte di Israele del Mossad per l’acquisizione da qualsivoglia paese di attrezzature mediche e per la raccolta di informazioni utili allo studio del virus. In questo dilagante sovranismo sanitario, nessuno è senza colpa: Francia e Germania hanno bloccato l’esportazione di forniture mediche alla Svizzera; gli studiosi italiani, lamenta Ilaria Capua, dal canto loro sarebbero un po’ restii a depositare le sequenze di virus sulle banche dati internazionali a libero accesso. Proprio quando il virus non ha confini e sarebbe nell’interesse comune della specie umana sviluppare una cooperazione globale. Se quindi è assurdo alzare inutili muri, sarebbe anche stupido ignorare le implicazioni in termini di sicurezza nazionale di alcune scelte, sanitarie o farmaceutiche, dettate solo dal mercato. Molti farmaci essenziali sono prodotti all’estero, ad esempio i farmaci generici che oggi acquistiamo in India o in Cina, e potremmo rimanerne sprovvisti se venissero meno i rapporti con i paesi produttori. La sanità è un’articolazione fondamentale del sistema di sicurezza di un paese, della difesa nazionale, come forse erano più pronti a pensare, qualche generazione fa, i fondatori della disciplina dell’igiene pubblica. Siamo convinti che le nostre vite, la nostra organizzazione sociale, siano difese da cannoni e carri armati, ma prima ancora è necessario che l’incolumità biologica venga garantita dalla disponibilità di posti letto in terapia intensiva, di dispositivi di sicurezza individuali, di respiratori. Se, dopo la crisi petrolifera del 1973, i paesi industriali hanno deciso di accumulare scorte strategiche di petrolio per almeno 90 giorni di consumo, non si capisce perché un simile margine di sicurezza non debba essere garantito anche sul terreno sanitario. Ovviamente, ciò è molto diverso dal considerare la sanità una pura e semplice branca dell’economia di mercato, perché il mercato da solo non può farsi carico della sicurezza di una comunità nazionale. Una versione più ampia di questo articolo è pubblicata sulla rivista Il Tetto http://www.iltettorivista.it/ | |