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n. 12178   lettori al   16.07.24
Termo-valorizzatori: perché sì, perché no, quanti e come.
03-02-2020
Premessa. Perché ne parlo, radunando un po’ di informazioni, pur non essendo assolutamente un’esperta, ma una semplice cittadina? Perché sono arcistufa delle guerre di religione, passate e future, sul tema, e non ho assolutamente intenzione di sposare una “fede”, ma semplicemente di capirci qualche cosa. Se poi contribuissi anche a prevenire qualche futura guerra di religione (ne vedo qualcuna all’orizzonte), tanto meglio.
Primo punto. Nel vasto campo dei rifiuti, l’inceneritore è solo l’ultimo, eventuale, anello, di un sistema che richiederebbe numerosi altri passaggi/strumenti, che in alcune zone del paese mancano quasi del tutto (Roma, tanto per fare un esempio). Una raccolta differenziata buona come quantità e qualità, impianti di trattamento piccoli e molto distribuiti sul territorio, specialmente per la frazione umida che da sola rappresenta il 40% del totale rifiuti urbani. Se non funzionano bene questi passaggi intermedi, l’efficacia stessa dell’eventuale inceneritore è seriamente compromessa, e la produzione di sostanze nocive (diossina, polveri ultrasottili) aumenta. Una cosa è bruciare il “tal quale”, una cosa dei rifiuti adeguatamente differenziati e pretrattati. Invece chiacchieriamo solo di inceneritori, litigando fra quelli che vi scorgono la panacea per tutti i mali, e quelli che vi vedono solo pericoli, sempre e comunque.

Come esempio (argomentato) del “perché no”, vi ho linkato l’intervista ad Andrea Purgatori di Mario Tozzi,

'Gli inceneritori producono diossine e polveri sottili'

che di mestiere farebbe il geologo, ma è un ottimo comunicatore di scienza.

Come esempio (anche questo argomentato) del “perché sì”, linko un articolo

Termovalorizzatori, i rifiuti e le idee sbagliate: farli è perdere consensi

pubblicato il 20 gennaio sul Corriere di Antonio Preiti, che di mestiere farebbe il sociologo, il quale non si limita a citare gli stranoti esempi di Vienna e Copenhagen (nella foto sopra), città dotate di inceneritori nel centro-città, con scuole e impianti sportivi nelle vicinanze, ma giustamente dice: beh, cari concittadini romani, visto che i termovalorizzatori non li volete, e i politici non li fanno per paura di perdere i voti, sicuramente avete fatto tutto il resto, per esempio ridurre i rifiuti, o fare bene la raccolta differenziata. Invece no, non avete fatto niente, perché a Roma i rifiuti pro-capite sono 605 kg all’anno e a Milano solo 502, la differenziata giace al 42,9 per 100 contro il 65,8 di Milano, e contro una media nazionale del 58,1. Per non parlare del top di Treviso all’87,3 e dei comuni “ricicloni”, molti dei quali – non sorprendetevi - sono nel profondo Sud.

Lasciando a voi, un po’ pilatescamente, la decisione se considerare gli inceneritori la “soluzione” o il “problema”, mi limito per ora ad informarvi di quanti ce ne sono ora, nonostante tutto, nel nostro paese, dove si trovano e quanto “producono”, riportando i dati del Rapporto Ispra 2019 sui rifiuti urbani.

Nel 2018, sul territorio nazionale, erano operativi 38 impianti di incenerimento con recupero di energia. Erano 11 in più nel 2012, perché anche gli inceneritori hanno un ciclo di vita, e quelli vecchi vanno sostituiti. La quantità di rifiuti incenerita non è però diminuita, anzi è un po’aumentata, perché la capienza degli impianti attualmente attivi ha assorbito quella degli impianti dismessi.

Il parco impiantistico non è uniformemente distribuito sul territorio nazionale, perché il 68% delle infrastrutture è localizzato nelle regioni settentrionali (26 impianti); in Lombardia e in Emilia Romagna sono presenti rispettivamente 13 e 8 impianti. L’Emilia-Romagna è quindi la regione che, in rapporto alla popolazione, dispone del maggior numero di inceneritori. A differenza della Toscana, regione ugualmente rossa, che però non ha spinto molto sull’incenerimento. Sia nel Centro che nel Sud gli impianti di incenerimento operativi sono 6.

I rifiuti urbani inceneriti ammontano, nel 2018, a quasi 5,6 milioni di tonnellate (+5,8% rispetto al 2017). Il 70,8% dei rifiuti inceneriti viene trattato al Nord, coerentemente col fatto che lì è localizzata la maggioranza degli impianti, il 10,5% al Centro e quasi il 18,7% al Sud. In particolare, due regioni da sole danno la metà del totale nazionale, Lombardia con il 34,9% del totale dei rifiuti urbani e l’Emilia Romagna con il 17,8%. Nel Sud, il solo impianto di Acerra tratta il 70,1% dei rifiuti inceneriti nel Mezzogiorno.

Il pro capite di incenerimento dei rifiuti urbani presenta un aumento da 87,1 kg/abitante dell’anno 2017 a 92,3 kg/abitante del 2018 (+6%).

A livello nazionale, il 18% dei rifiuti urbani finisce negli inceneritori, con un massimo del 40% in Lombardia e del 34% in Emilia. Il Veneto, regione molto virtuosa nella raccolta differenziata, destina all’incenerimento solo il 10% del totale dei rifiuti (pag. 114 del Rapporto).

Gli inceneritori non “distruggono” i rifiuti una volta per tutte, ma li trasformano, per cui producono a loro volta dei rifiuti, in media equivalenti al 23% dei rifiuti trattati. Insomma, se ci mettete dentro una tonnellata di rifiuti, non ne ricavate solo energia, ma anche 2 quintali abbondanti di altri rifiuti, più o meno pericolosi, che dovete sistemare da qualche parte (pag. 120 e 121 del rapporto, con i dati per ciascuno dei 38 impianti). E non sono tutti uguali: ci sono quelli che producono più rifiuti “pericolosi” e quelli che ne producono di meno.

Non sono uguali neanche per “capienza”. Il primato in Italia spetta a quello di Acerra, che ha trattato 729 mila tonnellate di rifiuti urbani, seguito a ruota dall’impianto di Como con 721 mila tonnellate. Insomma, due soli impianti bruciano oltre un quarto dei rifiuti italiani destinati all’incenerimento.