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Quando Roma era “povera ma bella”
09-12-2021 |
Ci sono nella vita delle città, come in quella delle persone, dei periodi speciali, dei momenti 'magici': stagioni irripetibili, che vedono una città esercitare un fascino particolare, divenire un centro di attrazione non solo per pittori, scrittori, registi, ma anche per i normali turisti, oltre che per i suoi abitanti. Credo che la stagione magica di Roma - della Roma moderna beninteso - coincida con gli anni '50 e '60 del secolo scorso. Sono gli anni della 'dolce vita', della 'Hollywood sul Tevere', di 'la sera andavamo in via Veneto'. Sono gli anni in cui - lasciata finalmente dietro le spalle la guerra e le sue macerie - la gente vuole dimenticare, divertirsi, andare al cinema e a ballare. In una parola, sono gli anni in cui si ha bisogno di credere nella felicità, che per molti coinciderà con l'acquisto di un frigorifero, dell'automobile, della televisione, della lavatrice. Se dovessi scegliere un oggetto simbolo di quel periodo, sceglierei senza dubbio lo scooter di Vacanze romane, quello sul quale una giovanissima Audrey Hepburn e un aitante Gregory Peck - nei panni rispettivamente di un'ingenua principessa e di un giornalista americano - corrono avanti e indietro per Roma, che con le sue strade, monumenti e chiese rappresentava di fatto la vera protagonista del film. Si può dire che quella pellicola ebbe per la città un enorme effetto pubblicitario e fece aumentare negli anni successivi il flusso dei turisti americani che - dimenticati i loro morti di Anzio e di Montecassino - erano desiderosi di vedere da vicino il Colosseo e le altre antichità romane. Merito del regista William Wyler che utilizza i luoghi più celebri della capitale come sfondo alla vicenda amorosa dei due protagonisti, ma merito soprattutto di Audrey Hepburn, allora solo una giovane promessa del cinema, che diventerà famosa proprio grazie a Vacanze romane. Nel film l'attrice, che incarna un nuovo tipo di bellezza femminile, fragile e aristocratica, va alla scoperta di Roma (e della libertà), da via Margutta a piazza di Spagna, dalla Fontana di Trevi al Pantheon. Beve champagne seduta al tavolino di un bar, infila la mano nella Bocca della Verità, balla su un barcone ormeggiato sul Tevere. E quando, nella scena finale del film, i giornalisti le chiedono quale, tra le città che ha visitato, preferisca, la risposta è: 'Roma, senz'altro'. Sì Roma, una Roma povera e provinciale che affondava le proprie radici in una terribile guerra perduta e, insieme, era animata da una fortissima volontà di ricostruzione. Una città - come del resto tutte le città d'Italia - piena di luoghi dove ritrovarsi: le piazze, per le feste e i comizi; i cortili e le strade, per farvi giocare i bambini; i bar, le botteghe del barbiere, gli stadi, gli oratori, per gli svaghi innocenti, basati sempre sullo 'stare insieme'. Dove il buio non faceva paura e i metronotte in bicicletta bastavano da soli come deterrente per scoraggiare i 'soliti ignoti'. Dove la maggior parte dei negozi esponeva mercanzie 'povere', oggetto dei modesti desideri di grandi e piccini, desideri che raggiungevano il culmine nella passeggiata del sabato pomeriggio (la domenica, da dedicare alla messa e al riposo, i negozi restavano rigorosamente chiusi). E' pur vero - come ha ricordato Corrado Augias - che in quegli stessi anni, sotto l'influsso dei numerosi attori e registi di Hollywood sbarcati sulle rive del Tevere, la capitale iniziò a modificare il suo comportamento e quello dei suoi abitanti, che trovarono nella presenza di tanti divi, nelle cronache delle loro vivaci serate e nella disinvoltura dei loro amori, il giusto stimolo alla loro voglia di ricominciare, dimenticando la fame e le paure della guerra e dell'occupazione. Così, quasi senza accorgersene, aiutato anche dal crescente benessere legato agli inizi del boom economico, si diffuse tra i romani un nuovo e inedito modo di vivere. E allora saliamo anche noi su uno scooter e andiamola a scoprire questa Roma 'povera ma bella'. Il nostro giro non può che iniziare dalla strada che divenne il principale simbolo di quel periodo: via Veneto. Per circa un decennio, l'elegante e sinuosa strada che scende da porta Pinciana verso piazza Barberini - sorta sui terreni di Villa Ludovisi, sacrificati alla prima speculazione operata a Roma dopo il 1870 - è stata il luogo di ritrovo preferito di letterati e giornalisti, che s'incontravano ai tavolini di un celebre locale, oggi sparito, il caffè Rosati. Si tirava pigramente tardi, si commentavano i fatti politici, i nuovi film, gli ultimi libri usciti; molto frequenti erano le reciproche malignità, condensate spesso in battute fulminanti che non risparmiavano nessuno. Quella strada e quelle serate sono state rievocate da Eugenio Scalfari in un libro famoso, La sera andavamo in via Veneto, in cui l'autore parla con affettuosa nostalgia di quel gruppo di artisti, scrittori e giornalisti di cui facevano parte, tra gli altri, Alberto Moravia ed Ennio Flaiano. Ecco come Scalfari li descrive: 'Vitelloni con un pizzico di snob. Molto misogini. Molto voyeurs. Molto indolenti. Alquanto sciroccosi. Testardamente sedentari.' Questo ritratto, anche se coglieva alcuni tratti esteriori del loro comportamento, non era del tutto veritiero: in realtà, scrive Augias, si trattava di un gruppo di persone colte, ironiche, un po' ciniche, ma accomunate quasi tutte da una medesima visione politica - laica, liberale e progressista - che non coincideva con alcun partito o movimento. Oggi di quella Roma e di quella società letteraria non resta più nulla, spazzate via dalla società di massa e dai suoi strumenti. Ma via Veneto non era frequentata solo da artisti e scrittori; grazie ai suoi lussuosi alberghi era anche il naturale punto d'approdo dei divi americani, venuti da Hollywood per girare film più o meno faraonici, in particolare i 'peplum movies', cioè le pellicole ambientate nella Roma antica, ovviamente reinventata a uso e consumo del pubblico d'oltreoceano. Quel flusso continuo di attori e registi alimentò, a sua volta, un via vai di personaggi legati in qualche modo al mondo del cinema: dalle attricette in cerca di fortuna ai fotografi, dai produttori più o meno noti agli addetti stampa. Non stupisce che un grande regista, nonché acuto osservatore del suo tempo, come Federico Fellini abbia scelto proprio via Veneto quale palcoscenico naturale per rappresentare quel mondo e quel periodo che, non a caso, proprio dal suo film prenderà il nome di dolce vita. Oltre a via Veneto c'è un altro luogo di Roma che è legato a quella stagione; un luogo conosciuto in tutto il mondo e che appare in entrambi i film prima menzionati. Mi riferisco alla famosissima Fontana di Trevi, oggetto ogni giorno del lancio di monetine da parte di turisti speranzosi di assicurarsi, grazie a questo gesto, il ritorno nella 'città eterna'. La storia della fontana, felice connubio di architettura e scultura, è strettamente collegata a quella del più antico acquedotto di Roma, il condotto dell'Acqua Vergine, l'unico che non abbia mai smesso di funzionare dalla sua nascita ad oggi. Curiosa l'origine del nome, che non fa riferimento alla Vergine Maria come si potrebbe pensare, bensì a una fanciulla che secondo la leggenda avrebbe indicato a dei legionari romani il luogo dove si trovava la sorgente da cui prelevare l'acqua, che fu chiamata 'vergine' a ricordo dell'episodio. È proprio dopo aver sostato ad ammirare la fontana che la giovane principessa di Vacanze romane decide di farsi tagliare i capelli in un simbolico atto di ribellione nei confronti delle rigide regole con cui è stata allevata. Ed è sempre in quella fontana che fu girata una delle sequenze più memorabili della storia del cinema: il bagno notturno della giunonica Anita Ekberg, scena 'clou' de La dolce vita. C'è un terzo luogo che non si può fare a meno di ricordare, parlando della Roma di quel periodo, ovvero Cinecittà, la città del cinema, detta anche la 'fabbrica dei sogni'. Gli stabilimenti cinematografici di Cinecittà furono inaugurati da Mussolini in persona, che li aveva fortemente voluti, convinto dell'importanza del cinema come strumento di propaganda. Il fascismo li utilizzò per promuovere la produzione nazionale, in un tentativo autarchico di imitare la più celebre Hollywood; quel periodo sarà poi chiamato dei 'telefoni bianchi', considerati un simbolo di raffinato benessere. Ma la seconda guerra mondiale era alle porte e non risparmierà neppure il mondo del cinema. La liberazione di Roma e la successiva fine dei combattimenti segnarono l'inizio di una lenta rinascita. Tuttavia, fu con l'arrivo delle produzioni americane che Cinecittà, ribattezzata la 'Hollywood sul Tevere', conobbe il suo periodo d'oro; questo boom ebbe origine dal mix di capacità tecniche e convenienza economica degli studi romani, complice anche una legge che non consentiva ai produttori stranieri di esportare i guadagni realizzati in Italia, obbligandoli a reinvestirli sul posto. Con la partenza degli americani, attratti da altri paesi più a buon mercato, Cinecittà perse lentamente il primato tecnico e produttivo che l'aveva resa famosa. Dopo un lungo periodo di decadenza, negli ultimi anni Cinecittà è tornata a ospitare i set di importanti film internazionali, come Il paziente inglese e Gangs of New York, tanto per citarne due dei più famosi. Tuttavia, come abbiamo detto all'inizio, nell'immaginario collettivo la fama di Cinecittà resta indissolubilmente legata alle produzioni degli anni '50-'60; a quegli anni cioè, che, con tutte le loro luci e ombre, le loro ambiguità fatte di avventurosi produttori, industriali golosi di mondanità, registi a caccia di occasione, aspiranti dive, hanno rappresentato una delle stagioni più felici del cinema italiano. Questo viaggio alla riscoperta della Roma degli anni sessanta, non sarebbe completo se non si accennasse almeno ad un altro luogo 'simbolo' di quel periodo: il quartiere dell'EUR. La zona, come è noto, era stata prescelta per ospitare una mostra internazionale che avrebbe dovuto aver luogo nel 1942, in coincidenza con il ventesimo anniversario della 'rivoluzione fascista'. Gli edifici e gli impianti rimasti incompleti o danneggiati dal sopraggiungere della guerra vennero restaurati e ultimati a partire dai primi anni '50. Nuovi edifici si aggiunsero ai primi dando vita alla formazione di un quartiere residenziale, sviluppato secondo un preciso piano urbanistico e arricchito dal trasferimento nella zona di importanti sedi di istituzioni e uffici pubblici. La modernità e insieme la monumentalità degli edifici, lo stile razionalista che li caratterizza e che ricorda per certi aspetti la pittura metafisica di De Chirico, hanno contribuito a farne - come dicevamo - un emblema della Roma di quegli anni. Non a caso l'EUR affascinò registi anche molto diversi tra loro, quali Antonioni e Fellini. Il primo, ne L'eclisse, utilizza le sue architetture fredde, geometriche per trasmettere l'incomunicabilità dei sentimenti e l'insuperabile senso di estraneità che caratterizza il rapporto fra i suoi personaggi. Il secondo lo utilizza nel suo film più famoso per simboleggiare l'ingresso nella modernità di una società caratterizzata - grazie all'impetuosa crescita economica - da un crescente benessere materiale, ma anche da una profonda crisi conseguente alla perdita dei tradizionali punti di riferimento, al cui fondo si ripropone implacabile il vuoto esistenziale. * * * * Essendo io nato a metà del secolo scorso, ho conservato qualche ricordo di quel periodo: certo allora per me 'via Veneto' era soltanto il nome della strada che percorrevo quando, da bambino, andavo con i miei a passeggiare a Villa Borghese. E 'La dolce vita' era il titolo di un film di cui sentivo discutere i miei genitori. Ricordo che mia madre decise di andarlo a vedere con una sua amica, nonostante le autorità ecclesiastiche si fossero espresse in maniera molto critica sul film e sul suo regista (mia madre era cattolica osservante, ma in quell'occasione, vinta dalla curiosità, scelse di non seguire le indicazioni della Chiesa). Quando, diversi anni dopo, ho scoperto il legame che univa via Veneto a La dolce vita, quella strada aveva già perso buona parte del suo fascino e il film di Fellini non scandalizzava più nessuno. Purtroppo, nel frattempo anche Roma aveva perso il fascino particolare di quegli anni irripetibili, mentre iniziava a profilarsi all'orizzonte un'altra stagione, quella degli odi politici e ideologici che sfoceranno infine nei funesti 'anni di piombo'. |