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n. 11432   lettori al   21.11.24
PASSEGGIANDO TRA RUDERI E SOLDATI
22-10-2020
Davanti alle macerie fumanti dell'aeroporto di Ciampino, la colonna si fermò. (...) I soldati americani, dall'alto dei carri armati, dei camion, delle jeep, ridevano e chiacchieravano, lieti e non curanti, masticando il loro chewing-gum. 'Questa strada – dissi a Jack – è seminata di ostacoli. Perché non suggerisci al Generale Cork di lasciare la Via Appia Nuova e di prendere la Via Appia Antica?'
(C. Malaparte, La pelle, Mondadori 1978)

Questa volta come meta della nostra passeggiata vi propongo la più famosa delle strade romane, ovvero l'Appia Antica conosciuta già nell'antichità con l'appellativo di “regina viarum”. La strada prende il nome dal suo costruttore, il censore Appio Claudio 'Cieco', famoso anche per aver fatto realizzare il primo acquedotto cittadino. L'arteria – una vera e propria autostrada per quei tempi – partiva da Roma e, grazie a successivi prolungamenti, dopo aver attraversato il Lazio, la Campania e parte della Puglia, arrivava fino a Brindisi. Nessuna strada romana ha raggiunto l'importanza rivestita dalla via Appia; collegando, infatti, Roma e le principali città del centro-sud col porto di Brindisi, la strada ha costituito una vera e propria testa di ponte con l'Oriente divenendo il tramite di tutti i traffici con la Grecia, il vicino Oriente, l'Egitto e rappresentando il tracciato fondamentale per viaggi, commerci e spedizioni militari.

Per rendere più interessante – o se preferite meno banale – la nostra gita tra gli antichi monumenti che costeggiano questa celebre strada, ho scelto come guida un famoso scrittore italiano della prima metà del ‘900, secondo me, oggi ingiustamente accantonato. Mi riferisco a Kurt Erich Suckert, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Curzio Malaparte, noto soprattutto per due romanzi autobiografici, basati sulle sue esperienze di soldato e di corrispondente di guerra durante l'ultimo conflitto mondiale. Il primo libro, Kaputt, probabilmente la sua opera più nota all'estero, trae spunto dalle sue esperienze sul fronte russo al seguito dell'esercito tedesco. Le vicende vissute come ufficiale di collegamento presso la Quinta Armata americana, costituiscono invece il nucleo narrativo del secondo romanzo, La pelle, da cui sono tratti i brani qui citati.
Fatta questa doverosa premessa, non ci resta che incolonnarci al seguito dell'esercito americano in marcia verso Roma e, come loro, lasciarci guidare da Malaparte lungo l'Appia Antica.

'What's that?' mi gridò il Generale Cork, indicando le tombe che, ombreggiate di cipressi e di pini, fiancheggiano la Via Appia Antica. 'Sono le tombe – risposi – delle più nobili famiglie dell'antica Roma'. 'What?' gridò il Generale Cork nel terribile fragore dei cingoli degli Sherman. 'The tombs of the noblest roman families!' gridò Jack.

Essendo vietato seppellire o cremare i defunti all'interno della città, nel corso dei secoli, lungo i margini della via Appia si è venuto a formare un grande sepolcreto, fatto di tombe di aspetto e dimensioni differenti che rappresentavano spesso un momento di celebrazione delle famiglie che ne ordinavano la costruzione; il viandante poteva leggere i nomi delle più illustri famiglie romane e celebrarne il ricordo. Uno dei più famosi esempi in tal senso è rappresentato dal Sepolcro degli Scipioni, la famiglia cui apparteneva il vincitore di Annibale.

Un discorso a parte meriterebbero le epigrafi poste sulle tombe a ricordo dei defunti, arte in cui i Romani furono maestri. Ad esempio, una lastra marmorea, rinvenuta lungo la via Appia, reca la seguente iscrizione: “Aphrodisio/vernae suo dulc(issimo),/fec(it) T(itus) Flavius/Epaphroditus” (Tito Flavio Epafrodito dedicò al suo piccolo e tenerissimo schiavo Afrodisio). L'appellativo verna indicava in genere gli schiavi e le schiave di giovane età, più precisamente quelli nati nella casa padronale. Afrodisio doveva quindi essere un piccolo schiavo nato e vissuto nella famiglia di Tito Flavio Epafrodito, legato al suo padrone da profondo e tenero affetto come testimonia il superlativo dulcissimus messo accanto all'aggettivo suus. Corrado Augias in un suo libro ricorda un'altra iscrizione, sulla tomba di una bambina, ancora più commovente nella sua concisa tenerezza: 'Terra sis illi levis/fuit illa tibi' (Terra sii leggera su di lei/ lei lo fu su di te).

Riprendiamo il nostro cammino, fino al punto in cui la colonna giunge davanti a due alti tumuli di terra, ricoperti di erba. 'Queste sono le tombe degli Orazii e dei Curiazii!' annuncia Malaparte, e prosegue narrando la storia della sfida dei tre Orazi e dei tre Curiazi, del combattimento, dell'astuto stratagemma dell'ultimo Orazio, nonché della sorella che il vincitore trafigge con la sua spada, per punirla di amare uno dei Curiazi.
La leggenda dei sei fratelli, tre di Roma e tre di Albalonga, cui vengono affidate le sorti del conflitto tra le due città è nota: all'inizio, i Curiazi sembrano avere la meglio, poiché riescono ad uccidere subito due Orazi riportando solo lievi ferite. Ma proprio quando la sorte di Roma sembrava ormai segnata, l'unico Orazio superstite decise di giocare d’astuzia e, fingendo la fuga, riuscì a separare gli avversari e, infine, a ucciderli uno a uno. Fin qui la leggenda; nella realtà, sappiamo che la guerra tra Roma e Albalonga fu lunga e cruenta, e che, alla fine, il re della città sconfitta venne orrendamente squartato dai vincitori.

Poco più avanti, mentre passano davanti alla tomba di Cecilia Metella, lo scrittore spiega al Generale Cork che quella era la tomba di una fra le più nobili matrone dell'antica Roma, congiunta di Silla. 'Silla? who was this guy?' gridò il Generale Cork. 'Silla, the Mussolini of the ancient Rome” gridò Jack. E io persi almeno dieci minuti per far capire al Generale Cork che Cecilia Metella 'wasn't Mussolini's wife”, non era la moglie di Mussolini.

In realtà di Cecilia Metella non sappiamo quasi nulla, salvo che era figlia del console Quinto Metello 'Cretico', cioè conquistatore dell'isola di Creta, e moglie di Marco Crasso, a sua volta figlio di uno dei più leggendari personaggi di Roma: il ricchissimo Marco Licinio Crasso, colui che soffocò nel sangue la rivolta degli schiavi capeggiati da Spartaco (avete presente il film di Kubrick con Kirk Douglas?). Dopo la cattura e la morte dello schiavo ribelle, tutti i suoi compagni furono a loro volta crocifissi proprio lungo la via Appia. Cecilia doveva essere comunque un personaggio importante, al punto da meritare una tomba così imponente in un punto bene in vista della via Appia. La sua forma riprende quella del mausoleo ellenistico, che proprio in quel periodo raggiungeva a Roma la massima diffusione.

Proseguiamo ancora il nostro cammino al seguito dell'esercito americano: giunti davanti alla chiesa del Quo Vadis, lo scrittore fa di nuovo fermare il convoglio.
In piedi sulla jeep, io narrai allora, a voce alta, che proprio in quel punto della strada, davanti a quella chiesetta, San Pietro aveva incontrato Gesù. Tutta la colonna si passò la voce, e un G.I. gridò: 'Which Jesus?'. 'The Christ, of course!' gridò il Generale Cork con voce tonante.
Tutti ricordiamo il romanzo storico intitolato 'Quo vadis' e l'omonimo film americano, che hanno diffuso la fama di questo episodio in tutto il mondo. La chiesa è stata eretta sul luogo dove, secondo la tradizione, Gesù sarebbe apparso all'apostolo Pietro, che fuggiva da Roma per sottrarsi alle persecuzioni di Nerone. Secondo il racconto, Pietro pose a Gesù la domanda «Domine, quo vadis?», ovvero 'Signore, dove vai?', e alla risposta di Gesù, «Eo Romam iterum crucifigi», 'Vado a Roma a farmi crocifiggere di nuovo', Pietro capì che doveva tornare indietro e affrontare il martirio.

Su una piccola lastra di marmo posta al centro della chiesa si trovano due impronte di piedi, che secondo la tradizione sarebbero le impronte lasciate da Gesù. In realtà, si tratta quasi certamente di un ex voto pagano per il dio Redicolo, offerto da un viaggiatore prima di partire per garantirsi il buon esito di un viaggio (o al ritorno, in segno di ringraziamento). La leggenda, che risale al II secolo, si diffuse nella tradizione popolare grazie alla scoperta delle due impronte.

Finalmente la colonna militare giunge a Roma e si ferma davanti al gigantesco scheletro del Colosseo; lì il generale Cork, alzatosi in piedi sulla jeep esclama con una punta d’orgoglio nella voce, rivolto allo scrittore: “I nostri bombardieri hanno lavorato bene!”. Poi, quasi come per scusarsi, aggiunge, allargando le braccia: 'Don't worry, Malaparte that’s war!'.

E con questa immagine del generale Cork, in piedi sulla jeep, che contempla con aria soddisfatta l'Anfiteatro Flavio, prendiamo congedo dalla nostra guida e lasciamo i poveri soldati americani alle prese con sciuscià e signorine.

* * *

Ho sempre trovato affascinante l'idea di Malaparte di far entrare le truppe americane a Roma facendole transitare per l'Appia Antica, come se fossero dei turisti in vacanza e, per di più, facendole sostare davanti a ogni rudere, come farebbe una brava guida. Ed è un vero peccato, a mio avviso, che l’ingresso nella capitale dei soldati americani e del loro comandante – il famoso generale Clark, ribattezzato, con sottile ironia, generale Cork (cork = tappo, turacciolo) – non sia realmente avvenuto così come narrato dallo scrittore. D'altronde, chi abbia letto i libri di Malaparte sa bene che egli gioca di continuo a mescolare realtà e fantasia, verità e menzogna. Un 'gioco' che l'autore, da scrittore di razza qual è, sa condurre così bene da rendere difficile capire dove finisce la prima e dove inizia la seconda. Egli stesso, peraltro, ha avuto l'onestà di indicarci la giusta chiave di lettura dei suoi libri; in una pagina de La pelle, infatti, fa dire a uno dei personaggi: 'Non ha alcuna importanza se quel che Malaparte racconta è vero o falso. La questione da porsi è un'altra: se quel che egli fa è arte, o no'.

That’s the question, miei cari, come direbbe Shakespeare.

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