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n. 7921   lettori al   16.07.24
L'isola che non c'è. O forse sì
06-11-2022
Diciamoci la verità. Chi non pensa almeno una volta nella vita – e forse di più – ad un’isola bellissima in cui rifugiarsi e coltivare sensualmente un po’ di se stesso!? E provare un brivido, senza la preoccupazione di dover rendere conto di quel brivido. Che poi non è detto debba essere per forza un’isola; può essere un altro luogo bellissimo, suggestivo, e paradisiaco. Che poi non è detto debba essere per forza bellissimo e paradisiaco. Può anche essere un luogo qualunque, di Monteverde, di San Siro, di Fuorigrotta… perché in fondo è un luogo dentro te stesso, dove puoi rifocillarti e godere di un brivido senza se e senza ma. E non è detto tu debba essere in solitario, puoi anche avere qualcuno con te. Il punto è che quel brivido sia condiviso. E va bene, lo dico: può essere pure il letto nella tua camera, a casa tua, a crogiolarti alle dieci della mattina senza avere nessun programma o cose da fare.
Il brivido dell’incontrarti liberamente con te stesso, col tuo corpo, con i tuoi muscoli, con le tue ossa, con la tua pelle, con la tua mente. E sentirli. E vagare. In fondo nell’isola meravigliosa in un lontano oceano ci puoi stare anche col pensiero. Insomma, è una questione di mente.
Per Paolo Giordano - scrittore, giornalista, e fisico appassionato ed esperto di questioni ambientali, energetiche e di matematica - quel luogo assume il nome e il profilo della Tasmania, cui riserva il titolo del suo ultimo romanzo.
Come emerge dalle pagine del suo narrato, proprio la Tasmania perchè “ha buone riserve di acqua dolce, si trova in uno stato democratico e non ospita predatori per l'uomo. Non è troppo piccola ma è comunque un'isola, quindi facile da difendere. Perché ci sarà da difendersi”.
Da questa idea nasce un romanzo sinceramente affascinante. Non saprei neanche dire se un bel romanzo, o un capolavoro, o un prodotto letterario solo gradevole e interessante, ma che non lascerà un segno nella storia della letteratura. Ma nelle mie giornate ordinarie, sì. Perché ci vedo dentro tanto uomo vero, uomo comune, intellettualmente vivo e umanamente intenso: insomma, in crisi.
Un romanzo di cui vengo a conoscenza, a una sola settimana dalla sua pubblicazione, quasi per caso. Leggo giornali e siti di informazione e di cultura, anche perché devo preparare una rassegna stampa da pubblicare sul sito web di una Associazione, e mi imbatto in un articolo di Guia Soncini, giornalista a dir poco singolare (credo lei stessa ci tenga molto ad esserlo), che mi attrae e mi stanca ad un tempo, perché ogni suo articolo devo rileggerlo più volte per comprenderlo bene… forse. Non che non sappia scrivere, lo fa apposta, per legarti al suo articolo e costringerti a stare con lei più a lungo. Ma questa volta è netta: il nuovo romanzo di Paolo Giordano ti induce a leggerlo, senza discussioni. Ed infatti è un romanzo sonciniano – o vogliamo dire giordaniano? Ti induce a stare con lui, in compagnia.

Perché? Perché ti fa stare in compagnia con te stesso. E non è un mattone alla Dostoevskij. E’ proprio, al contrario, la naturalezza dello stare insieme ad un protagonista confuso, consapevolmente confuso; fragile, consapevolmente fragile: e quindi ironicamente critico – e autocritico. Insomma ti fa stare in compagnia di te stesso. E non venitemi a dire che questi son problemi miei e di Paolo Giordano, mentre voi siete saldi e tetragoni di fronte al vostro vissuto, quotidiano e non !
Perché se pensate questo di voi stessi, allora è proprio il caso che vi leggiate “Tasmania”; o meglio ancora, che ve ne andiate un po’ in Tasmania, a resettarvi.
Con quello che si vive, nel privato e nel pubblico, e soprattutto nelle dinamiche relazionali fra dimensione privata e dimensione pubblica. Con la confusione di idee, e la penuria di autenticità intellettuale. Con le criticità e le difficoltà che quotidianamente si incontrano nel relazionare con gli altri, sul lavoro, per strada, in famiglia, nella polis; e nel relazionare con noi stessi… beh, se riflettiamo un po’ su tutto questo, allora ci addentriamo nella narrazione che Paolo Giordano fa del protagonista, e direi di se stesso.
Fisico, ricercatore scientifico, studioso, ma incline più alla comunicazione che alla scienza in sé, il protagonista scrive libri nonché articoli per grandi quotidiani. Non è scienziato, ma non è neppure un comunicatore o un artista fino in fondo, perché non sa neppure lui cosa voglia davvero essere. Vive. Magari anche bene, borghese colto, dal reddito medio/alto; viaggia tanto, per diletto, per lavoro, e per fuga. Una moglie di personalità, di dieci anni più grande di lui, con un figlio nato da relazione precedente. Un triangolo familiare che funziona; e non funziona. Il cuneo maligno lo inserisce fra loro il non riuscire ad avere figli, come coppia. Il figlio di lei soddisfa più la relazionalità fra ragazzo e patrigno, che non quello fra madre e figlio. Ma è altra cosa. Non riuscire ad aver figli, più che delusione umana, costringe alla consapevolezza che non hai il controllo.
Ecco il punto: non hai il controllo, ma sei in mano agli eventi, al caso, o quanto meno ad una tua decisionalità esistenziale contenuta, contingentata. E allora sfuma la consapevolezza di te stesso, di cosa sei, di cosa vuoi essere e fare: non viene meno del tutto, perché questo vorrebbe dire una svolta esistenziale tragica, con la nettezza della tragedia sofoclea, in cui la lotta col destino è titanica: perdente o vincente che sia, comunque titanicamente tragica. Ma questa è roba d’altri tempi. Ora le cose si sfumano, nell’indistinto, e il clima è da commedia surreale.
I rapporti perdono di nitidezza: sono e non sono. E avverti tanto il fascino quanto il rischio di costruire legami, affetti, emozioni. Accetti il rischio, e costruisci e gestisci il vissuto? O accetti la fuga? O il disincanto?
E così, crisi coniugale? Sì, al punto da cercare ogni pretesto per non restar solo con la moglie: meglio partire con qualunque scusa. Oppure meglio stare in compagnia con altri: magari altre coppie, e sperimentare (al protagonista viene detto più volte: devi sperimentarti). E anche una breve vacanza con altra coppia consente di sperimentare; sperimentare sesso a quattro, persino con un momento di improvvisa pulsione omosessuale. Funziona? Ridà spinta alla coppia oppure la sfascia del tutto?
Boh, è la risposta che si evince dal finale aperto del romanzo.
Ma non perché ci sia passività umana e caratteriale, ma proprio perché nello sfumato, i colori non si distinguono bene per davvero. L’insieme si decolora, mantiene una sua attrattiva e vitalità, ma appunto, sfumata, decolorata. Pulsioni affettive riemergono, voglia di stare insieme pure. Come farlo? Difficile comprenderlo. Intanto andiamo avanti e vediamo.
E così è pure nelle relazioni di coppia degli altri personaggi, tutti segnati dal medesimo annebbiamento: non una coppia dal profilo chiaro e distinto, felice/ infelice, in crisi/in armonia. Niente, si vive, ci si impegna pure, ma la dimensione della stabilità nei rapporti in questo romanzo si misura non in anni, bensì in giorni.

E così è pure nelle relazioni amicali. Personaggi letterariamente ben disegnati sono proprio quelli di alcuni amici, o colleghi, o addirittura compagni di studi, che si frequentano, si cercano, direi persino non possono fare a meno l’uno dell’altro. E collaborano anche professionalmente, soprattutto quelli accomunati da formazione scientifica e da interessi per la questione ambientale, e per la questione energetica. Il nucleare, con le sue conseguenze da verificare, se anche progressive o solo catastrofiche, è tema protagonista non secondario nel romanzo. Ma tutto questo non riesce ad impedire che il rapporto fra amici con lo scorrere delle pagine divenga sempre meno nitido, sempre più indecifrabile, un punto interrogativo: amicizia vera, consonanza intellettuale, vicinanza professionale, abitudine, disinteresse di fondo, addirittura strumentalizzazione reciproca (quel tuo amico forse ti utilizzava solo come pubblico, su cui sperimentare se stesso e i propri prodotti intellettuali: questo vien detto ad un certo punto al nostro protagonista). Insomma lo sfumato indistinto nei rapporti d’amore e coniugali attraversa anche i rapporti amicali o professionali. Ed emblematico è anche il rapporto fra il protagonista ed una giornalista, gran viaggiatrice alla ricerca di scoop legati a grandi drammi collettivi: attentati terroristici soprattutto. Incontrarsi, conoscersi, aver voglia di fare sesso, non avere voglia di impegnarsi, allontanarsi e respingersi fisicamente, e poi ricercarsi assiduamente e compulsivamente per whats app. Insomma una relazione/non relazione, con tanto di reazione di gelosia della moglie. Gelosia di cosa? Di una relazione che appare più che essere. E alla fine del romanzo non sapresti nemmeno dire cosa ci sia stato fra i due: non perché tu lettore non capisci, ma perchè non lo capiscono i due personaggi stessi.

Un indistinto, uno sfumato su cui l’autore gioca anche dal punto di vista della tecnica narrativa. Più volte nella narrazione ti trovi improvvisamente di fronte a nomi di altri personaggi, che ancora non sono stati presentati in scena, e lo saranno solo a distanza di pagine. Oppure si fa riferimento ad un accaduto, che forse è accaduto davvero, oppure stai fraintendendo, e poi la cosa ti si disvela a distanza di molte altre pagine. Tanto che al momento ti domandi se forse ti sia sfuggito qualcosa nella lettura e tu debba riprendere pagine precedenti per verificare. Insomma un gioco di detto/non detto, di flashback e di flashforward che mescolano e intrecciano passato/presente/futuro, catturano la tua attenzione ma volutamente accentuano l’effetto di eventi indistinti e fuori controllo.

E su tutto questo, potente aleggia e domina il peso degli eventi collettivi sulla vita delle persone. Attentati terroristici, guerra, eventi climatici, crisi politica, ruolo distorsivo di stampa e social fra opportunismo e politically correct, con cui peraltro il protagonista fa un po’ squallidamente i conti : tutto ci attraversa, entra dentro di noi, molto più della nostra consapevolezza. Al punto che l’intreccio fra pubblico e privato, fra collettivo e individuale si fa inestricabile. Ed è anche giusto – non solo comprensibile – che sia così. Ma complica ulteriormente il tuo vivere, anche se l’evento dovesse determinarsi come positivo. Perché comunque ti attraversa, e dunque ti pone di nuovo il problema del controllo. Del non essere adeguatamente protagonista di te stesso.
In tal senso, dunque, un romanzo davvero ipermoderno. Lo so, mi direte: ma in definitiva è un romanzo sconsolatamente pessimista? O ti dà delle chances? Almeno sul terreno di un vitalismo, magari un po’ frenetico, ma pur sempre di respiro? Boh! non so. Ma questa non è la mia risposta, da lettore inadeguato. E’ proprio il romanzo, che si chiude così. Cioè si chiude… aperto. Al punto che ti vien fatto di pensare… e di sperare, che si tratti solo di una prima puntata, e che la fiction contempli un seguito. Chissà.

Però la luce credo dobbiamo sempre cercarla. E io la cercherei nelle pagine in cui il protagonista, per scrivere un libro sulla bomba atomica (forse), va alle celebrazioni giapponesi in memoria delle vittime di Hiroshima e Nagasaki. E lì l’incontro con la solennità umana di qualche erede di vittime del nucleare, ti apre una luce dentro, mente e cuore. Una solennità che non si lega a figure tratteggiate retoricamente come eroiche, austere, autorevoli, ma per l’esatto contrario: figure umanamente normali, che introiettano il proprio vissuto da libri di storia elevandolo al piano della normalità umana. Che non controlla gli eventi; ma controlla le proprie emozioni.


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