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n. 8039   lettori al   14.08.24
Un museo storico. Cultura e spettacolo, memoria e arte. Adulto e bambino
26-09-2021
Va bene, mi lancio e sfido i miei 5 lettori (se Manzoni ne preventivava per il suo romanzo 25, non posso che aspirare a 5… bene che vada… 6 lettori) a dire se conoscono l’esistenza di un Museo storico che si chiama “Piana delle orme” – località Borgo Faiti, agro pontino, fra Anzio e Terracina/Circeo. Un museo, che dico? Una specie di villaggio che ti affonda e ti immerge nella memoria. Da una parte la seconda guerra mondiale e lo sbarco alleato ad Anzio; dall’altra la bonifica delle paludi pontine e più in generale la vita dei campi in quel territorio: uno spaccato di vita e di cultura contadina. Il tutto condito da una attenzione al ruolo delle macchine, e alla loro evoluzione, tanto in sede – tragica – bellica quanto in sede di mondo del lavoro agricolo. Io ne ignoravo totalmente l’esistenza; eppure vivo a Roma da una vita e passo le vacanze estive da 40 anni a Terracina/Circeo.
Credo proprio che questa sfida la vincerò, perché posso serenamente pensare e affermare che non è la mia ignoranza abissale a farmi essere inconsapevole della esistenza di questo museo. Tutti i miei compagni di gita lo ignoravano, e così tutte le persone a cui ho chiesto; anzi, in verità sono gli stessi organizzatori e gestori del museo che esprimono consapevolezza di questo. Sulla qual cosa mio riservo di ritornare dopo, essendo per me fonte di assoluta meraviglia; e direi anche di autentica allibita arrabbiatura.

50.000 mq di esposizione, in parte all’aperto, fra gli alberi e in mezzo a prati, campi, piccolissimi corsi d’acqua; e in parte in grandi padiglioni. Dentro una mega azienda agrituristica, un parco storico che ospita una collezione fra le più grandi e varie esistenti, in Italia – e non solo.
Entri, e ti trovi subito a ridosso di un vero aereo da guerra o da trasporto, della RAF o dell’aviazione italiana o americana. E già ti senti piccolo piccolo. E così di fronte ad una vecchia locomotiva a vapore, che, pigiando un bottone, comincia a sbuffare fumo e a far galoppare le sue ruote. Oppure sei di fronte ad un mortaio, vero, che ha avuto una sua storia… di morte e che ti dà i brividi e che vorresti non fosse mai esistito. Oppure ti ritrovi immerso in una battaglia – fortunatamente simulata – di soldati italiani che fronteggiano le truppe inglesi in nord Africa. Oppure ti ritrovi improvvisamente in un grande campo di grano, con tanto di trattore, trebbiatrice e tanti attrezzi di cui ignori anche il nome. Oppure – miracolo dei musei – improvvisamente cambi scenario e ti ritrovi nella pace e nella bellezza socratica di un’aula di una scuola d’epoca, ricostruita con precisione di particolari, a cominciare da quei vecchi banchi biposto, di legno, con tanto di calamaio incorporato, di monostruttura fra sedile e piano scrittura. e senza rotelle!!
Insomma, un campo dopo l’altro, un padiglione dopo l’altro, e sei immerso nella memoria. Di una storia che conosci e riconosci; ma che lì ti sembra di rivivere, come fosse realtà. O quanto meno, come qualcosa che esce dalle pagine dei libri di storia e assume il profilo pluridimensionale della realtà.
Il mix è fatto di una quantità enorme di modellini, che hanno generato in me – ridicolo collezionista ultra piccolo – una autentica invidia mista ad una eccitazione di tipo vagamente erotico (soldatini, navi, aerei, elicotteri, carri armati, mezzi da sbarco, jeep, camion, giocattoli d’epoca, nonché trattori e macchinari agricoli). E poi una quantità straordinaria di “cose” vere: automobili d’epoca, aerei, carri armati, camion, jeep, mezzi da sbarco, treni, divise, armi d’epoca. E infine una serie di scene simulate - anche nei rumori e nelle voci che ti accolgono e ti avvolgono, fra cartone e ferro - di lavoro nei campi nonché di azioni militari. Riconoscibilissime. Sbarco alleato, truppe e veicoli alleati, truppe e veicoli tedeschi; treni angoscianti di deportazione di prigionieri ebraici e oppositori politici. E poi rastrellamenti, violenze e sofferenze varie a Roma, particolarmente forti in quei sanguinosissimi mesi fra sbarco ad Anzio e liberazione di Roma. Mesi fatti di una logorante guerra solo in parte di movimento, e in buona misura di scontri fra due schieramenti ambedue incapaci di chiudere una statica partita militare; sbloccata di fatto poi solo dal bombardamento di Cassino, travolgente ed anche pieno di errori di valutazione da parte dell’intelligence alleata.
Insomma entri, giri e ti trovi letteralmente immerso nella storia… e nella memoria. Con un ritmo incalzante ed un taglio che emoziona e coinvolge: l’adulto come il bambino. Per l’uno con la tragica consapevolezza della storia; per l’altro con la storia come rappresentazione e come finzione: quasi filmica, quasi di gioco, un risiko di cui però anche il bambino – che sarà pur ingenuo, ma mica stupido - percepisce la drammatica corposità del reale.
Difficile dire cosa catturi di più l’attenzione. I modellini, perfetti, di aerei, navi, automezzi vari; i plastici di scene di battaglia, qualcuno anche di altra epoca rispetto alla seconda guerra mondiale; il che rivela l’origine del museo, frutto della passione impegnata di un collezionista. Oppure le scene simulate, con gusto scenografico precisissimo nella fedeltà storica a oggetti, macchine, persone, divise, volti sofferenti o arcigni, per l’impegno bellico o lo sforzo nel lavoro dei campi. E le simulazioni sono sempre accompagnate da rumori, voci, un audio di sottofondo che concorre ad immergerti nella scena, a farti sentire vicino allo sbarco navale ad Anzio, alla battaglia di El Alamein, al bombardamento di Cassino, o al duro lavoro di recupero di un terreno alla produzione agricola. Vicino… ma ad un tempo ben consapevolmente lontano, con il nostro girovagare da turisti 2.0, con le nostre macchine fotografiche e i nostri smartphone sofisticati. Ma lontano in questo caso non vuol dire insensibile o irrispettoso. Insomma niente selfie vicino alla sagoma ben riprodotta di un gruppo di soldati delle SS o di un gruppo di deportati verso lontani lager o di soldati italiani assediati dal nemico in un avvallamento tombale nella guerra d’Africa, circondati dai nemici: tipo generale Custer assediato, e sterminato, dai guerrieri di Toro Seduto e Crazy Horse. Le foto le facciamo, sì, in quantità, ma come ricordo di eventi che ancora ci stanno sulla pelle e come testimonianza di una visita culturale ad un sito che la memoria la fa rivivere nel rispetto, oltre che in un impegno museale davvero artistico. Cioè alto, non consumistico.
Ecco da ribadire: qui la storia si rivive, non si consuma.

Del resto il museo si chiama Piana delle orme. Appunto, le orme sono “il reale”, le orme sono passato e presente; le orme ci proiettano verso la configurazione di un percorso futuro. Proprio come emblematicamente ci appare nella scena di un recinto con due veri muli, bianchissimi, tranquilli, e tutt’altro che indispettiti da questi visitatori curiosi. Il mulo, un animale del passato – permettetemi di dire – un animale che davvero sembra appartenere ad un’epoca arcaica, lontana anni luce dalla sofisticata tecnologia 4.0 del nostro presente. Povero mulo, un animale superato dal tempo… eppure il mulo esiste, eccome, e la sua partita nel presente se la gioca. Nel presente e nel futuro… proprio come uno dei due muli visti in quel recinto, palesemente in attesa di un muletto. Ecco, il ventre pieno di nuova vita di quel bianchissimo animale può essere metafora del nostro stato d’animo nella visita a questo straordinario museo storico: un tuffo nella memoria e nel passato, la consapevolezza di un presente con le sue complessità (le mascherine sui nostri volti ne costituiscono plastica rappresentazione), e la proiezione verso un futuro che, al di là di guerre, epidemie ed altre sofferenze, è comunque fatto di altra… nuova vita che si ri-produce.

Insomma un museo che è cultura e spettacolo, è storia e vissuto quotidiano, è riflessione e divertimento, è memoria e arte; è adulto e bambino.

E allora ecco la domanda cui alludevo prima, e che ci ha seguito per tutta la visita, per una mattinata intera. Ma perché tutto questo prodotto della creatività, dell’impegno, dello sforzo anche economico di persone, associazioni ed enti vari, è così poco conosciuto (poco è un eufemismo)? D’accordo, come in tante operazioni umane, all’origine ci può anche essere una persona sola, con la sua passione e capacità. Il collezionista Mariano De Pasquale è all’origine del museo. Ma da opera di un collezionista, il museo è diventato “impresa”, azione collettiva, industria culturale - e fors’anche dello spettacolo. Ed è diventato, per tanti, anche lavoro, occupazione. E per un territorio come l’agro pontino, una potenziale risorsa: economico/turistico/culturale. E sono intervenute associazioni molteplici, circoli, fondazioni, locali, italiane e forse straniere. Qualcosa avranno fatto anche settori istituzionali, come le forze armate? Forse. E’ una domanda. Ma la domanda di fondo è. Perché una struttura ed una risorsa con questa qualità e queste potenzialità è così poco conosciuta e valorizzata?
Io ho avuto occasione di andare nel nord della Francia e visitare ampiamente Bretagna e Normandia. E in quest’ultima regione ho visitato i luoghi ed il museo dello sbarco in Normandia, che pure – diciamo la verità – sul piano storico-militare è vicenda di portata assai maggiore dello sbarco ad Anzio. La Normandia, il vero punto di snodo della seconda guerra mondiale. E quei luoghi sono valorizzati, emozionanti da visitare e appassionanti per immergersi nella memoria. E non solo i privati turisti, perché le celebrazioni ci sono e sono numerose e consistenti. Movimentano memoria, ideali, desiderio di non ripetere quei drammi umani individuali e collettivi. Ma diciamo la verità, movimentano anche – legittimamente, senza arricciare moralisticamente il naso - turismo e indotto commerciale di ogni genere. A Sainte-Mère-église, piccolo paese normanno, hanno realizzato un indotto di ogni genere attorno ad un manichino che rappresenta un paracadutista americano rimasto appeso al campanile della chiesa locale, durante tutta la notte che precedette lo sbarco e che il lancio di paracadutisti doveva preparare come accompagnamento via terra. E hanno fatto bene, a costruire ad un tempo un mito storico, una identità della comunità locale ed un affare economico che dà sostentamento a tanti abitanti. E noi?
Insomma, posso dire in tutta sicurezza, che il museo dello sbarco in Normandia di fronte alle coste di Omaha Beach, non raggiunge il livello di dotazioni del museo di Piana delle orme. Le quali superano di gran lunga quelle della Normandia per quantità ed anche per dislocazione scenografica. E non ne parliamo poi se ci aggiungiamo anche le dotazioni del museo dello sbarco che ha sede nel centro cittadino di Anzio, anch’esso poco valorizzato.
Un difetto e un limite di noi italiani? Oppure è che in Italia abbiamo talmente tanto patrimonio storico/artistico, che ci possiamo permettere di trascurarne una parte? Oppure il tutto deriva dal fatto che il museo è rigorosamente privato, e le pubbliche istituzioni che ne sono fuori, non fanno un passo per valorizzare un museo come questo? O è la dimensione privata del museo che rifugge essa stessa dalla collaborazione con le pubbliche istituzioni? Non lo so, non ne ho la minima idea e non mi permetto di dare giudizi. Ma di una cosa sono sicuro, anzi di due.
Il museo che ho avuto occasione di conoscere e visitare meriterebbe di essere conosciuto e visitato ben al di là di quanto non avvenga.
Inoltre privato o non privato, istituzioni pubbliche o no, qui tutti fanno il danno di tutti. Privato, Stato, Enti locali. Chiunque non valorizzi al massimo una risorsa del genere fa il danno di una collettività: locale, territoriale, ed anche di livello più ampio.
E fa il danno di una memoria storica che da strutture come questa potrebbe uscire rinforzata, nella dimensione individuale come in quella collettiva.
E non é che non ce ne sarebbe bisogno!




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