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Ogni notte, tornando dalla vita
di Cesare Pavese
Ogni notte, tornando dalla vita, dinanzi a questo tavolo prendo una sigaretta e fumo solitario la mia anima. La sento spasimare tra le dita e consumarsi ardendo. Mi sale innanzi agli occhi con fatica in un fumo spettrale e mi ravvolge tutto, a poco a poco, d’una febbre stanca. I rumori e i colori della vita non la toccano più: sola in se stessa è tutta macerata di triste sazietà per colori e rumori. Nella stanza è una luce violenta ma piena di penombre. Fuori, il silenzio eterno della notte. Eppure nella fredda solitudine la mia anima stanca ha tanta forza ancora che si raccoglie in sé e brucia d’un’acredine convulsa. Mi si contrae fra mano, poi, distrutta, si fonde e si dissolve in una nebbia pallida che non è più se stessa ma si contorce tanto. Così ogni notte, e non mi vale scampo, in un silenzio altissimo, io brucio solitario la mia anima. | |
Note |
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Grande narratore, Cesare Pavese è stato anche poeta di forte fascinazione; del resto con una profonda unitarietà ispirativa fra realismo magico del suo narrare e lento cadenzare dei suoi versi. Nella raccolta “Le febbri di decadenza” troviamo una poesia – “Ogni notte tornando dalla vita” - dalla intensa carica suggestiva, con i suoi toni e semitoni modulati fra lirismo puro e ordinario vissuto quotidiano. Questa poesia, a suo modo narrante, ci conduce dentro l’animo e il vissuto del poeta, ma ad un tempo ci fa viaggiare dentro di noi, nel nostro intimo sempre emozionalmente sollecitato dal notturno. Versi antichi e nuovi. L’io, con la molle complicità del buio della sera, quotidianamente torna dalla vita e dalle sue dinamiche relazionali, dai suoi rumori, dai suoi colori, per calarsi in se stesso. In quel gioco di penombre che abitano tanto la casa quanto l’animo. E si consuma, in una rituale gestualità stanca ma a suo modo sensuale, nel rapporto con una sigaretta, di cui si nutre per prendere le distanze dalla convulsione del presente e “fumare solitario la propria anima”. La sigaretta, che arde e si consuma, si fa metafora di un io che, senza “scampo”, ogni notte arde e si consuma. Un io lirico tanto nei contorcimenti defatiganti del giorno quanto nel nebbioso decolorarsi in notturni quasi chopiniani. E la poesia muove tutta lungo l’asse di un gioco di penombre espresse da ripetuti ossimori, in immagini e parole: anima stanca che ha forza; consumarsi ardendo; luce violenta e penombre; acredine convulsa; distrutta e si contorce. La sera foscoliana, portatrice di quiete e la notte lunare leopardiana che apre all’infinito ed alla domanda irrisolta sul senso della vita, qui, in Pavese, si dissolvono “in nebbia pallida”, nel lento ardere e consumarsi di una sigaretta: nella intimità inafferrabile dell’io. | |
Questi versi di Cesare Pavese sono stati inseriti da Carlo Mari il 07-11-2022 |