Come eravamo (o erano)
Viaggio nel Sud (1958)

Viaggiare per l'Italia del Sud nei primi anni 50 per raccontarla, significa anche registrare tutte le contraddizioni, le distanze, le resistenze a uno sviluppo sollecitato dallo Stato, frenato da inerzie e diffidenza. Già Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia descrive in quegli anni una " rivoluzione in sordina" fatta di adattamenti disordinati a una trasformazione quasi subita.
La TV è la principale novità tecnologica del secondo dopoguerra e la RAI svolge mirabilmente la sua funzione di servizio pubblico intervenendo su più fronti con produzioni documentaristiche di notevole livello. Nel 1958, comincia Viaggio nel Sud, un'indagine condotta con particolare attenzione sociologica. Il regista è Virgilio Sabel, mentre Giuseppe Berto e Giose Rimanelli firmano soggetti e sceneggiature delle 10 puntate.
L'indimenticabile voce fuori campo di Arnoldo Foà dà emotività e calore alle immagini. Il suo commento serve a spiegare, o meglio a dimostrare piuttosto che mostrare, la tesi sostenuta dagli autori sul come e il perché il mezzogiorno è diverso dal resto dell'Italia. Si vuole spiegare ad un pubblico poco o male informato in quali radici secolari affonda la questione meridionale. Si vogliono superare pregiudizi e luoghi comuni in favore di una comprensione indispensabile: sarà solo grazie ad una colossale opera di risanamento delle zone depresse che il mezzogiorno potrà affrancarsi dalla sua condizione di miseria.
Nel documentario persone mostrate nella loro autenticità e nel loro ambiente di lavoro e di vita parlano di sé e dei propri problemi senza essere stati preparati a farlo. Ne esce un discorso immediato rivolto direttamente allo spettatore.
Non e' mai troppo tardi (1961)

Al censimento del 1961, La popolazione italiana è di 50 milioni e 600 mila abitanti. 4,4 milioni risultano iscritti alla scuola elementare, 2,4 milioni alla media e superiore, 288 mila, di cui 80 mila ragazze, all'università.
Gli analfabeti sono 3,797 milioni, l'8,3% della popolazione (6,6% uomini e 10% donne). La RAI collabora con il Ministero della Pubblica Istruzione e insieme producono il programma televisivo "Non è mai troppo tardi". Dal lunedì al venerdì, nella fascia d'orario che precede i programmi in prima serata, un vero maestro di scuola elementare, che ha passato il provino RAI proprio per quel programma ideato dal direttore generale della Pubblica Amministrazione Nazareno Padellaro, comincia a tenere le sue lezioni per le quali diviene popolarissimo. Si chiama Alberto Manzi. Ha cominciato la carriera nell'immediato dopoguerra al carcere minorile "Aristide Gabelli" di Roma, accettando un incarico che nessuno voleva. Nel 1950, ha vinto il Premio Collodi per il romanzo per ragazzi "Storia di un castoro". Laureato prima in Pedagogia e poi in Psicologia, alla fine degli anni 50, prima di approdare in TV, fa ricerca didattica all'università, nelle scuole elementari e anche in America latina.
Manzi tiene le sue lezioni alla RAI come "insegnante distaccato". Percepisce lo stipendio di insegnante elementare, mentre l'ente radiotelevisivo si limita a rimborsargli le spese.
La classe in studio è composta da adulti analfabeti ma tantissimi seguono le lezioni a casa, in locali messi a disposizione dalla parrocchia, dalla casa del popolo, dal comune, trasformati in luoghi di aggregazione e di ricezione di quell'unico canale della televisione.
Manzi usa ciò che oggi chiameremo i sussidi multimediali che le tecnologie di allora consentivano. Il suo è un linguaggio fatto di parole semplici di uso molto comune, più semplice ancora di quello che, venti anni più tardi, Tullio De Mauro individuerà come il lessico "fondamentale" della lingua italiana.
E' opinione comune che l'unificazione culturale e linguistica dell'Italia ha avuto dalla televisione un decisivo impulso. Certo è che la trasmissione "Non è mai troppo tardi" consentì a quasi un milione e mezzo di persone di imparare a leggere, scrivere e far di conto. Nel mondo si sono contate ben 72 nazioni che negli anni successivi , sulla base dell'esperienza italiana, hanno prodotto trasmissioni dello stesso tipo.
Comizi d'amore (1963)

All'inizio del 1963 Pier Paolo Pasolini ha appena finito di girare "La ricotta", uno dei quattro episodi del film RoGoPaG (dalle iniziali dei registi coautori Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti). Un episodio nel quale, ancora una volta, è il sottoproletariato romano ad essere il reale protagonista. E' un'opera controversa per la quale l'autore, accusato di "vilipendio alla religione", viene prima condannato a 4 mesi di reclusione e poi, in appello, assolto "perché il fatto non sussiste". La Cassazione nel 1967, annulla questa seconda sentenza ma non rinvia Pasolini a giudizio, perché nel frattempo "il reato è estinto per amnistia". Il suo amico Alberto Moravia scrisse che, in realtà, a Pasolini si volevano far pagare due pesanti giudizi contenuti in un dialogo del film:
"L'Italia ha il popolo più analfabeta e la borghesia più ignorante d'Europa" e, il secondo,
"L'uomo medio è un pericoloso delinquente, un mostro. Esso è razzista, colonialista, schiavista, qualunquista".
E' proprio mentre sta per arrivare la prima sentenza, che Pasolini si rilassa e comincia a girare "Comizi d'amore". Un docu-film si direbbe oggi, o film-inchiesta. Aveva lo scopo di gettare un sasso nell'acqua stagnante della contorta educazione sessuale degli italiani, travolti da un improvviso benessere economico ma restati, in quella sfera, con un'arcaica "morale". Voleva provocare una salutare discussione sul rapporto tra l'uomo e la donna, sul matrimonio e il divorzio, sui sentimenti e la sessualità, sull'omosessualità, sulla prostituzione, sui vizi e i tabù sessuali. Percorrendo l'Italia in lungo e in largo, Pasolini intervistò molte persone semplici ma
anche colleghi scrittori e giornalisti. Vengono fuori cose piuttosto gravi, dette con una convinzione disarmante. Vedere o rivedere oggi "Comizi d'amore" ci fa riflettere su come eravamo, su quanta strada abbiamo fatto e quanta strada ancora dobbiamo fare per arrivare a dirci,
su questo importante aspetto della vita di ognuno di noi, veramente liberi e rispettosi delle libertà altrui, soprattutto di quelle delle donne.
La donna che lavora (1959)

Negli anni tra il 58 e il 63 il prodotto interno lordo in Italia cresce nella misura del 6% annuo. In poco tempo da paese tendenzialmente agricolo, l'Italia diventa una potenza industriale. Comincia l'epoca della motorizzazione di massa e la FIAT quadruplica la sua produzione di vetture. L'autostrada del Sole, inaugurata nel 1964, sarà poi l'infrastruttura che renderà più rapida e più diffusa l'espansione delle attività produttive. Sono gli anni delle ondate migratorie dal sud al nord. Chi lavora la terra con enormi sacrifici e ristrettezze, nel nord trova una vita durissima ma meno disperata. E' un fenomeno improvviso e deflagrante e per questo sarà chiamato boom economico. Si assiste a un forte cambiamento nel costume, nella cultura, negli stili di vita di una grande massa di persone, travolte da un altro fenomeno assolutamente funzionale allo sviluppo: il consumismo. La canzone "Ciao amore" di Luigi Tenco, qualche anno più tardi, descriverà così quel cambiamento: "saltare cent'anni in un giorno solo, dai carri dei campi agli aerei nel cielo". Il personaggio di Lulù, interpretato da Gian Maria Volonté nel film La classe operaia va in Paradiso di Elio Petri (1971), è la drammatica rappresentazione dello stordimento di questo nuovo tipo umano: l'operaio massa.
Tuttavia è tenendo d'occhio l'evoluzione della condizione femminile in quegli anni, che è possibile notare come le trasformazioni epocali scalfiscano appena le contraddizioni e gli stereotipi di genere imperanti.
Il programma della Rai "La donna che lavora", in onda nel 1959, anche se mosso da buone intenzioni in quel contesto, finisce per esserne un'involontaria testimonianza. Basta ascoltare attentamente.
Processo per stupro

Il Codice Rocco (1930) classificava i reati di violenza sessuale e incesto, rispettivamente, tra i "delitti contro la moralità
pubblica e il buon costume" e i "delitti contro la morale familiare". La violenza sessuale non era considerata un'offesa contro la persona, ma contro una generica moralità pubblica. Alla donna non era riconosciuta l'autonomia nella sfera sessuale e relazionale.
L'art. 544 del codice penale (cancellato nel 1981), con il "matrimonio riparatore", consentiva l'estinzione del reato per il violentatore se sposava la vittima.
Nel 1978 una giovane di 18 anni, Fiorella, denunciò per violenza carnale quattro uomini di quarant'anni circa, fra cui Rocco Vallone, un suo conoscente.
Il processo per stupro fu celebrato a Latina nel 1978 e registrato. La RAI decise, fatto straordinario, di mandarlo in onda nel 1979 e fu seguito da milioni di spettatori.
L'avvocato della vittima, Tina Lagostena Bassi, denunciò quella mentalità millenaria di violenza e sopraffazione maschile,
che permette al giudice di consentire " domande tanto morbose quanto irrilevanti, toni sprezzanti nei confronti della vittima, atteggiamenti percepiti come scherzosamente complici tra gli uomini del processo, a prescindere dal loro ruolo, per la sola appartenenza al genere maschile".
Una copia è conservata negli archivi del MOMA (Museum of Modern Art) di New York. DA NON PERDERE
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