Non ci servono nuovi presepi ...
di Carlo Corridoni---25-08-2021
''Non ci servono nuovi presepi ...''
''Non ci servono nuovi presepi''?
Quali frasi, più di questa, potrebbero scandalizzare una platea, sia pure estiva e distratta, ma raccolta di sera (di prima serata!) davanti al TG3?
Basterebbe ricordare i commenti allarmati dei media sulla decisione di alcune scuole elementari di rinunciare alla costruzione del presepe sotto Natale ...
Ecco: una frase così, pronunciata con enfasi ma senza che possa provocare 'levate di scudi', non poteva pronunciarla che un Vescovo. Precisamente il Vescovo di Rieti, ieri ad Amatrice, nel quinto anniversario del grande terremoto che devastò lo sterminato territorio fra Marche, Umbria e Lazio.
Certo, non è corretto giudicare tutto un discorso da una sola frase - per quanto infelice - per di più già selezionata dal cronista in cerca d'effetti, ma l'eminenza del personaggio nell'eccellenza dei presenti (il Presidente del Consiglio dei ministri Mario Draghi e il Commissario straordinario per la ricostruzione, Giovanni Legnini) mi spingono a cercare di capire bene che cosa volesse dire il Vescovo.
Un Vescovo che poi, come gli si converrebbe (!), è abituato a dire 'pane al pane e vino al vino', a differenza delle altre, sussiegose autorità.
Direte: chi sono io per interpretare le locuzioni d'un Vescovo? Tranquilli: io non interpreto ma cerco solo di capire, giacché penso che i presepi di cui non si avrebbe bisogno sono di sicuro quelli di ben altre, storiche e collaudate mangiatoie.
E' quindi necessario approfondire, e capire le differenze dai casi precedenti, almeno da quelli più recenti.
Ciascuno dei terremoti che dal 1908 hanno devastato, spesso ripetutamente, intere province del Paese ha avuto una storia a sé; molte di tali storie non sono ancora chiuse e alcune non si chiuderanno più, lasciando cicatrici insanabili nella storia e nei territori, devastati, oltre che dal sisma, perfino di più dagli errati interventi riparativi.
Uomini di Stato costruirono le loro fortune politiche (alcuni anche economiche di taluni loro sostenitori) sulla gestione più o meno accorta delle opere di ricostruzione, altri invece ne furono compromessi, ma poco - complessivamente, in proporzione al danno arrecato - per via che l'avvicendamento dei governi è da noi di frequenza ben maggiore di quella dei terremoti, grandi o piccoli.
(Per questo il sisma viene erroneamente considerato 'evento raro', pur essendo malauguratamente frequentissimo.)
Il terremoto di Amatrice, però, ha talune caratteristiche originali rispetto a tutti gli altri, tali da condurre addirittura un Vescovo a pronunciare parole così taglienti.
Veniamo alla prima caratteristica: il sisma si protrasse lungamente (dall'agosto 2016 al gennaio 2017), rendendo estenuante - spesso vanificandola - qualunque decisiva attività emergenziale e imponendo tempificazioni incongrue, di fatto non sostenibili, con aggravio dei danni e più ancora dei costi.
La seconda caratteristica: il cratere del sisma è variegato e concerne 1)aree pressoché disabitate, con disseminazione di piccolissimi borghi, 2) aree di alto pregio storico artistico, 3) aree di interesse ambientale-turistico, con prevalenza di c.d. 'seconde case', ma interessate da costante spopolamento.
La terza caratteristica non è tanto di tipo geodinamico o sociale, e consiste nella crisi politica, economica e pandemica che prevedibilmente ci affliggerà negli anni a venire.
Insomma, ancora a cinque anni dal disastro, emerge la necessità di scegliere interventi diversificati per le diverse zone, e ogni disomogeneità comporterà differenti gradi di soddisfazione da parte della cittadinanza interessata, con differenti costi politici e gradi di consenso verso le Istituzioni.
Dopo la prima scossa, si promise che le misure di risarcimento sarebbero state disposte anche per i proprietari di seconde case, forse per trattenerne gli interessi nelle zone in via di spopolamento e sostenerne l'economia a favore dei residenti ...
I primi lavori, relativi ai servizi essenziali necessari ai residenti a alle (poche) imprese agricole e pastorali, stanno per giungere a compimento, ma appare sempre più chiaro come, nei cinque anni trascorsi, i diretti interessati abbiano per la maggior parte cercato di provvedere autonomamente ai loro problemi vitali.
Questo comportamento attivo dei cittadini ha in qualche modo selezionato i problemi ad oggi emergenti, ridisegnando il profilo degli interventi ancora necessari da parte dello Stato e le loro priorità.
Appare adesso drammaticamente chiaro come la ricostruzione 'com'era dov'era' non sia uniformemente praticabile e che taluni gruppi di case, forse interi borghi, non potranno più essere restituiti all'antica fruibilità.
Molti degli aventi titolo a chiedere il risarcimento non lo avrebbero neanche richiesto, forse perché finalmente determinati all'abbandono della zona. Della zona e delle condizioni di vita che potevano essere loro offerte.
Ed ecco il 'discorso dei presepi' che ha suonato così strano dalla bocca del Vescovo: quanti piccoli paesi abbandonati hanno - infatti - l'apparenza del presepe? Se venissero di colpo distrutti dal sisma, che senso avrebbe ricostruirli per lasciarli ancora e di nuovo deserti? Destinati all'improduttività?
Non avrà certo omesso il Vescovo di segnalare fra le priorità fino ad ottenere la ricostruzione dei luoghi di culto - del suo culto, aggiungo - ma, dopo le parole di ieri, l'archeologia folcloristica non la sosterrà di certo ...
Ed è proprio questo che molto probabilmente Egli avrà voluto dire, alludendo contemporaneamente ad un sacrificio per lui perfino costoso, una specie di rinuncia alla presepificazione.
Quanti paesi conosco intorno a Roma che hanno centri storici abbandonati dai loro abitanti, che ancora mantengono le loro casette ma dove non abitano più, magari pagandoci l'IMU, la TARI e l'IRPEF!
Quei paesi, a passarci di sfuggita, sembrano proprio presepi, come quei presepi napoletani densi di case e di taverne intorno alla grotta con la sacra Famiglia. Quei presepi napoletani conservati sotto le grandi campane di vetro per preservarli dalla polvere ...
I nostri paesi-presepio non hanno campane di vetro a proteggerli, e da ieri mancano già perfino della buona parola di un Vescovo. Almeno uno!
I loro toponimi, insieme con le piazze e le vie percorse un tempo da gente fiabesca, Costa calla (dove batte il sole), Costa fridda (dove non ci batte mai), Via del Forno fatato, Vico di Ponte Gattone ... evaporeranno nell'incomprensibilità, anche se i Comuni non li scrivono più a calce ma su maioliche smaltate, murate, però, su intonaci già pericolanti ...
Possibile che queste realtà di archeologia minore siano lasciate ad un destino perfino imprevedibile, nel disinteresse d'una qualunque loro eventuale prospettiva?
Non c'è proprio nessuno che le trasformi, queste realtà, da testimonianze umane in risorse?
Molti immigrati hanno rivitalizzato centri storici che erano morenti, hanno loro restituito dignità, voci di bambini e canti: potremmo, Eminenza, offrire loro un posticino nei tanti vecchi e nuovi presepi di cui non sapremmo cosa fare? Non sarebbe, questa, una promozione dell'altro Presepio, quello vero?